Fumo Blu - Autore: Andrea Ballotti (Menzione D' Onore) XIII Edizione Della Sezione C - Racconto/Saggio Breve Inedito
Alla fine di cosa sono fatta, io? Non ci sono muscoli e carne e sangue e cartilagine. Non ci sono quelle chiazze rossastre sulla pelle che dicono del tempo, della vergogna, del dubbio. Più spesso della paura. E neppure efelidi opache, che appaiono e scompaiono seguendo le linee di mezza luce.
Così, salendo sul primo tratto un po’ più ostico, gli sembrava che la montagna avesse incominciato a muoversi, che la sua voce uscisse da qualche anfratto un po’ più umido chiedendosi una volta per tutte se ci fosse un qualche significato, vago, trasparente o se invece valesse la pena di dimenticare tutto. Annaspando sul fiato corto mentre capiva, un po' amaro, che le giunture si accontentavano di gracchiare come quei corvacci che quando si trovava in parete si avvicinavano incuriositi e poi fuggivano tuffandosi e rammentando quanto vuoto c’era sotto al culo, si ricordò distintamente, sgranandoli rapidamente ad uno ad uno, che di anni ce n'erano quasi sessantaquattro. Si spostò lievemente a destra, lì dove il sentiero si ingentiliva appena raccattando una dimensione un po’ meno verticale. Si spostò e si tirò giù la cerniera della giacca illudendosi che potesse servire a riprendere un po’ di forza. Buttò giù lo zaino e per l’ennesima volta aprì la tasca laterale controllando che la piccola scatoletta di metallo fosse rimasta lì, al posto suo. La tirò fuori e con le dita la scosse contro l’aria ascoltando ancora lo sciacquettio impolverato che ne usciva. Era sempre lo stesso rumore rinsecchito che tanto lo avevaa ccompagnato e che, stranamente, sopratttuto negli ultimi giorni, lo rendeva un po’ più sereno, forse solo un po' più rassegnato. Doveva essere quello il senso, pensò. Stretto dentro alle parole di suo padre, quando gli parlava della miniera di carbone dove aveva lavorato per quasi mezzo secolo. Era che a forza di scendere dentro alla pancia della terra, diceva, ci aveva fatto l’abitudine e ogni volta si sentiva più tranquillo, felicemente assente dalle cose che accadevano in superficie, e perfino, quando gli toccava di ritornare sotto il cielo, quasi gli dispiaceva e quasi si augurava che l’indomani arrivasse presto per rinchiudersi ancora, per scendere e rabbuiarsi. E quando lo diceva, con quella sua voce scabra, respirata sui vapori di carbone, in equilibrio su quei baffi setosi e allisciati, era impossibile non credergli. Ma adesso, valicata la nostalgia, erano soltanto questioni spicciole di superstizione o di fatalismo...Rimise a posto la scatoletta rifiutandosi di tirare troppo la corda e accontentandosi di quella folata che lo aveva attraversato, affilata, come lo sguardo di una cane che aspetta, invano, la carezza. Si rimise lo zaino in spalla e decise di ricominciare la salita. No. Non ancora. Si girò di scatto, piroettando sui sassi che spolveravano il sentiero, e si mise a guardare la valle, appena descritta da batuffoli di nebbia che facevano per andarsene, stuzzicati dal mattino che si gonfiava. Era una giornata frizzantina e L' autunno aveva incominciato bene, agguantando i larici che si ingiallivano caricandosi, dietro all'ombra, di una nota ancora più burrosa e invitante. Gli abeti, invece, loro non volevano saperne di cambiare, e si limitavano a dare il loro contrappunto, eternamente verdastro, continuamente annoiato. Però, a veder tutto così, da quella prospettiva muta, gli alberi, la stagione, il cielo raggelato e zuccherino, beh, era uno spettacolo che da solo valeva la pena del viaggio, anche senza le ragioni, quelle vere, che dopo molti anni lo avevano riportato lassù. A pensarci, non era mai venuto in montagna in ottobre. Come aveva sbagliato. Com'era bella la valle che sonnecchiava quando i turisti se n’erano andati. Se n’era già accorto, quella stessa mattina, immettendosi piano nella provinciale con l’alba già distesa sull’asfalto. Gli Hotel del paese erano tutti chiusi, le persiane serrate, i residence sguarniti, gli impianti e i cannoni da neve ancora incappucciati. Bellissimo. Sembrava quasi che l'estate non fosse mai esistita, che nessuno l’avesse notata, che nessunovfosse capace a ricordarsi di lei. D’istinto, e solo per salvarla dal dimenticatoio, provò a riacciuffarne qualcuna di passata, impastando sudori e calori con qualche scampolo struffato di scelte acerbe e immature.
“Marco, Marco!”
Sentì distintamente la voce di Saverio che urlava da sotto o da sopra, dicendo sempre le stesse cose.
“Molla, libera, parto!”
Si rivide spalmando le scarpette sulla roccia, cercando l’appiglio giusto, allargando lo sguardo per cercare la strada giusta, contorcendosi di qua e di là, annusando i chiodi. Si ricordò di essere
sempre stato piuttosto bravo a sbagliare il meno possibile. Tranne quella volta, sulla Via delle Farfalle. Lì sì che aveva fatto una cazzata, una di quelle grosse, che possono costare caro. Ma il temporale si era avvicinato troppo in fretta e non lasciava il tempo di star lì a cincischiare. Così, credendo di evitare l’ultimo tratto difficile aveva seguito le roccette raddolcite che conducevano sul lato Nord e parevano promettere una salvezza un po’ più rapida. Ma il dolce era solo l’ ennesimo inganno delle apparenze e quando si ritrovarono oltre lo sperone una serie di strapiombi giallastri oscuravano il passo e impedivano di proseguire, mentre, plik plik, la pioggia aveva cominciato a cadere con gocce grandi come una susina. Se avessero tirato dritto, almeno, sarebbe stato più facile trovare un punto di sosta più solido e sicuro. Ma niente. Ormai era tardi. Così, tornando indietro di qualche metro, avevano raggiunto una minuscola cengia piantando un chiodo miserello in una fessura semicieca e mettendosi a sedere sulla corda come insegna il manuale del bravo alpinista.
Saverio non la smetteva di bestemmiare sperando in quel modo di riuscire a deviare meglio le scariche dei fulmini ma non serviva a granché. Uno di loro, per nulla intimorito dalle girandole di blasfemia, si conficcò a pochi centimetri da loro, facendoli sobbalzare sulla cengia come bioccoli di polvere, poi, facendoli ricadere svenuti. Il chiodo, per fortuna, aveva tenuto. Quando si risvegliarono il temporale era passato, l’odore di zolfo impregnava l’aria e Marco sentì un calore diffuso che si spandeva attorno al collo. Controllando, si accorse che la catenina si era fusa raccogliendosi in un impiastro informe e sinistro. Continuando a guardare verso valle e sbuffando via un refolo di rabbia si accorse che ancora gli dispiaceva soltanto di questo. Non il fatto di essere tornato vivo, ma l’aver perduto per sempre quella collana dorata che
i suoi gli avevano regalato per il primo giorno di scuola. Lui faceva parte di quelle cricche di ingenui che credeva che gli oggetti avessero un‘anima o che riflettessero quella di chi li indossava o li possedeva, e quella catenina raggrumata era come se gli avesse portato via un pezzetto di vita. Sbuffò ancora mescolando alla rabbia una spennellata di inquietudine che, almeno, gli fece riprendere un po’ di fiato. Alzò il muso scrutando il pezzo che mancava. La pendenza si contorceva verso l’alto in una danza verticale che si stringeva sull’ultimo tratto scomponendo roccette maldestre e scricchiolose.
Rise immaginando che forse poteva trattarsi di un secondo grado, secondo grado superiore a esser molto ma molto generosi. Robetta da principianti, da camminatori della domenica ingozzati di burro e polenta. Riattaccò la salita acchiappando ancora gli anni che teneva
sul groppone, che pesavano molto di più di un piatto di polenta e che erano molto meno digeribili. Misurando i passi gli sembrò di sentire ancora la voce della montagna che, senza fantasia, si
accontentava di riportare quello che stava scritto sulla cima del
Campanile Basso. “Ripeta l’eco finché voce avranno dirupi e gole la
voce di color che la montagna volle a sé chiamare”. Come ci stava
dentro tutto. Come una piccola frase riusciva, ora, ad infilzare tutto
in uno spiedino accostato di gioventù, estati aromatizzate al
rimpianto, amori glassati sulle cose non dette.
Com’è che nel passare del tempo gli sbagli sepolti riaffiorano come
cadaveri di pesci tranciati? Dovrebbe essere il contrario, cazzo.
Mano a mano che si procede anche gli sbagli dovrebbero affondare
sempre di più, fin quasi a scomparire del tutto. È una semplice
questione fisica basata sulla distanza...
Ma anche così non riuscì a trovare una spiegazione degna,
pacificandosi sulla giostra degli eventi adulti e seri e gravi e
inossidabili, che sempre costringono a scelte apparenti di saggezza,
quella saggezza che spesso fa rima con prudenza e, a volere essere
un po' più onesti, con le fughe e i rifiuti di vigliaccheria. Ma mica
c’era solo quello. Rallentò un pelo cadendo in una trappola benigna,
morbida e cotonosa. Rivide, in un immagine schietta,
straordinariamente banale e per questo ancora più nitida, il primo
bacio che aveva dato a Francesca, i trent'anni che ancora li vedevano
insieme. Qualche litigio ben assestato, certo, ma ancora insieme. Poi,
la nascita di sua figlia Eva e, come un guizzo argentino, rimestato di
malinconia, la vita che immaginava facesse da quando si era
trasferita a Barcellona. Poi ancora le mille scalate andate perse chissà
dove, gli acciacchi e quella maledetta artrite alla spalla che lo aveva
costretto a smettere. Da allora, ed erano passati quasi vent’anni, non
era più tornato in montagna. Quello, almeno non era stato uno
sbaglio. No. Meglio dare un taglio netto, pensò, e poi coccolare i
ricordi, tenerli sul comodino e lustrarli alla bisogna. Avanzando
ancora si aspettava che il colpo più duro avesse la generosità o
almeno il buon senso di aspettare la cima ma mentre le goccioline di
sudore gli imperlavano la fronte sentì che stava arrivando e che non
sarebbe bastato qualche saltello in avanti per scansarlo o per
supplicarlo di aspettare. Si rassegnò, obliquando lo sguardo verso la
tasca dello zaino, intuendo ancora quella scatola di metallo che
oscillava lentamente suonando come una vecchia maracas. Allora
tornò sulla scalata più importante di tutte, quella su cui, era tornato
un po’ più spesso, soprattutto alla sera, sprofondando la testa sul
cuscino e faticando a prender sonno. Non si trattava neanche di una
vera scalata. Solo una cresta erbosa piuttosto corta e stretta ed
esposta che sboccava su pianoro più comodo dove il sentiero
ricominciava più pacato. Non più di una quindicina di metri. Suo
padre aveva tirato fuori lo spezzone di corda che teneva nello zaino
e gliela aveva legata in vita dicendogli “Vai avanti, capocordata!”. E
lui era andato, sicuro, senza voltarsi, raggiungendo il pianoro e
recuperando piano suo padre che, appena arrivato non aveva detto
niente ma solo gli si era seduto accanto cavando la tavoletta di
cioccolato e continuando nel silenzio e guardando i cirri che
spettinavano il cielo. Come, poi, crescendo e iniziando a scalare, a
scalare davvero, altro non aveva fatto che andare a cercare, quella
sensazione lì, esatta, precisa, dipinta su una cresta qualunque, pallida
e sdrucita...Andando avanti sulle roccette infide e stando ben attento
a dove metteva i piedi, neanche gli venne da piangere e anzi, un
sorriso lieve gli si stampò sulle labbra, obliquandole, nascondendo il
quarto di amarezza sotto la lingua e quello, per fortuna, non voleva
saperne di disciogliersi. Erano le cose minute, i tagli ritagli e
frattaglie, le sfumature che cadono da un parte e dall’altra
stuzzicando il vuoto e rendendo più difficili i rapporti. Aprì bocca e
disse a voce alta “Ecco, è questo che sono venuto a fare quassù”. La
richiuse, sbiascicando, raccogliendo saliva, sputando a terra e poi
riconoscendo, dalla parte del figlio, che i padri e le madri sono un
miscuglio scompigliato fra quello che vediamo e quello che
vorremmo vedere. Ed esattamente per quel motivo, non era stata
colpa di nessuno se andando avanti e affannandosi nel vivere, lui e
suo padre si erano perduti. Era successo, così, semplicemente,
necessariamente, perché non avevano più niente da dirsi. Si
incontravano ma cadevano dentro all'ennesimo silenzio, non il
silenzio vivido che li aveva appartenuti quando si erano seduti a
guardare le nuvole, ma un silenzio sciatto, vergognato, in cui ognuno
teneva la posizione sua, si distendeva su fraseggi squallidi e non
vedeva l’ora di ripartire. Era successo e basta. Inutile arrovellare o
peggio ancora, torcersi le budella e piangerci sopra...Quasi senza
accorgersene si ritrovò sulla cima che stava lì, deserta, fregandosene
delle scarpe che passavano e la calpestavano. Sbirciando il panorama
si disse che aveva fatto bene a scegliere “lei”. Un pianoro stretto,
bianchiccio, quasi intimo che sembrava fatto apposta per accoglierti
e ascoltare i segreti più nascosti senza che ci fosse bisogno di aprir
bocca. Togliendosi lo zaino socchiuse gli occhi ascoltando i raggi del
sole che si erano fatti un po’ più languidi. Prese il pacchetto di
sigarette e se ne accese una aspirando forte la prima boccata. Erano
anni che non si faceva una paglia e aveva comprato il pacchetto con
malcelata soddisfazione, pregustandosi l‘onda di nicotina che
avrebbe sciacquettato il polmone ben aperto. Sentì la testa che
iniziava a perdersi, i neuroni intrisi di fumo grigiastro, e si mise
seduto continuando a tirare, solo un po’ più lentamente.
Come cazzo avrà fatto mio padre a fumarne due pacchetti al
giorno...
Lo rivide con la Nazionale conficcata sulle labbra. E rivide sua
madre che ogni volta gliene diceva quattro e lui che si metteva a
canticchiare la canzone di Mina. Fumo blu, fumo blu, un uomo è un
uomo quando sa di fumo. Stonato com’era e con la cicca volante, a
mezz’aria, pareva un clown ubriaco o un giocoliere sputafuoco che
mostrava le sue grazie a un bambino spaparanzato sul tappeto e a
una donna alta, allampanata che, dopo aver ripulito la tavola,
sistemava le stoviglie mettendole ad asciugare su uno strofinaccio.
Poi, con l’infarto e lo stent coronarico, e soprattutto con Mina che
era uscita di scena un po’ troppo presto (e come c’era rimasto male),
dall’oggi al domani aveva dato taglio netto, buttando la riserva di
pacchetti, lo Zippo e trovando poca consolazione nelle caramelle
alle erbe medicinali confezionate all’Eremo di Camaldoli. Rise, un
passo un po’ più dentro alla tristezza. Si guardò la pelle delle mani
fin su, all’attaccatura del polso, dove la manica del maglione finiva il
suo giro. Rivide ancora suo padre, la sua pelle secca, dura, scolpita
dalla malattia, spiegazzata sotto le lenzuola dell’ospedale. Il suo
corpo di gigante come rimpicciolito, risucchiato, trasparente. Non si
scompose. Frugò nello zaino e prese il cellulare componendo il
numero. Francesca rispose al primo squillo.
«Ciao, sei arrivato?»
«Sì, da cinque minuti...»
«Come stai?»
«Bene, solo un po’ stanco».
«Certo. Ma...Hai già fatto?»
«No, non ancora».
«Prenditi il tempo che ti serve, salutalo per bene...e poi chiamami
quando riparti».
«Sì, adesso vado...»
Buttò giù e spense la sigaretta fermandosi sulla parola. Saluto. Un
saluto e via. Anche da bambino pareva una cosa incomprensibile.
Quando si trattava di lasciare gli amici si girava brusco e iniziava a
camminare senza voltarsi e senza dire niente. Neanche un piccolo
cenno con la testa. Era solo crescendo che aveva imparato quei
rimandi di buona educazione che restano inutili vagolando nell’aria,
incapaci di spiegare le cose che finiscono e che non tornano mai
uguali. E adesso? Soprattutto adesso? Si inumidì, non soltanto
dentro agli occhi ma dentro al corpo tutto. Si fece liquido, fresco,
scivoloso, il dolore che sciacquettava la spalla malaticcia, le braccia,
le gambe, come il torrente spolvera i sassi rendendoli viscidi. Decise
di non aspettare più. Afferrò lo zaino bruscamente e cavò la
scatoletta di metallo che conteneva le ceneri di suo padre. La aprì
senza guardarla e alzandosi in piedi iniziò a scuoterla lasciando che
ci pensasse la brezza leggera che si era appena alzata. La stessa
brezza raccolse anche un minuscolo ciao aiutandolo a volare fragile
e a sbattere sui pinnacoli di pietra che da dietro sorvegliavano. Si
rimise seduto, i gomiti sulle ginocchia piegate. Una briciola di quiete
lo afferrò. Non perché si era liberato di un peso, non perché si
sentiva finalmente sollevato ma perché, anche quella volta, l’ultima,
era stato lui, senza corda in vita, a portare suo padre verso l’alto.
ANDREA BALLOTTI - E’ nato a Siena dove vive e lavora. Laureato in
filosofia, con un Master in Letteratura e Editoria. Le sue ultime pubblicazioni:
Romanzo "Anna delle ombre", Del Bucchia editore, 2013.
Nei tre finalisti del Concorso letterario Castelli Romani con la raccolta di racconti
"Il rumore del cucchiaino" , Giulio Perrone editore, 2014.
Raccolta di racconti "Tutte le cose piccole da portare in valigia" , L"Erudita,
Giulio Perrone editore, 2016.
Vincitore Premio Letterario In viaggio con il racconto "Sotto la coperta",
Carmignani editore, 2016

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