Affrontando le tematiche del dialetto è importante fare un accenno a Dante Alighieri che, intorno al 1302-1305, nel “De Vulgari eloquientia”, partendo dal volgare, lingua del popolo, riflette sul fatto che gli antichi romani parlassero un proprio “volgare” ed usassero il latino esclusivamente come lingua scritta. Dante in questo trattato analizza ben 14 volgari delle regioni di tutt’Italia.
Il volgare è comunque soggetto a delle trasformazioni nel corso del tempo. Del resto, all’inizio del mondo, gli uomini parlavano un unico linguaggio. Durante la costruzione della Torre di Babele, leggendaria costruzione narrata nella Bibbia, nel libro della “Genesi”, gli uomini vennero dispersi su tutta la terra e cominciarono a parlare lingue diverse.
Da un attento esame del Dante nessun volgare italiano è degno di essere considerato “illustre” neanche il toscano verso il quale lui stesso esprime un giudizio severo.
Il volgare per essere considerato tale, deve avere queste caratteristiche:
“illustre” per dare lustro a chi lo usa- “cardinale” come cardine intorno al quale ruota tutto il parlare- “aulico” perché degno di essere usato in una reggia – “curiale” perché degno di essere usato dai membri di una corte.
Dante quindi parla del romano come “ peggiore dei dialetti…che non è neanche una lingua, ma piuttosto uno squallido gergo peraltro parlato da genti che in quanto a bruttura di abitudini e fogge esteriori appaiono più fetide di tutti “.
Ma torniamo un po' indietro nel tempo: la lingua subisce un’evoluzione che dura da secoli.
Anticamente il latino è la lingua del Lazio che caratterizza la storia di Roma antica, quando gli abitanti erano divisi in tante comunità, fino alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C.), poi inizierà il Medioevo.
Il latino si parlava in tutte le aree soggette ad espansione, occupate dai Romani (Italia , Europa Occidentale, Asia Minore…). Le lingue locali sono quindi un’evoluzione del volgare Quest’evoluzione porterà a lingue neolatine o romanze. Le principali lingue romanze sono l’italiano, lo spagnolo, il francese, il portoghese ed il romeno.
Il Concilio di Tours (813 d.C.), voluto dall’Imperatore Carlo Magno, è considerato l’atto ufficiale di nascita delle lingue romanze. Il Concilio stabilì che la liturgia rimaneva in latino, mentre l’omelia (predica) doveva avvenire in rusticam romanam lingua (romanza volgare), e aut thiotiscam (lingua germanica).
I primi testi più importanti in volgare italiano sono considerati Ritmi ( lunga serie di versi senza alcun schema fisso), ad esempio - Il Ritmo su Sant’Alessio- racconto della conversione cristiana del santo.
Un altra testimonianza scritta di volgare italiano (primi decenni del sec IX) è un graffito con il quale si avverte chi ufficiava la messa di non recitare ad alta voce le orazioni (Roma- Catacomba di Commodilla) “non dicere ille secrita a bboce”.
Un altro testo conosciuto scritto in un volgare italiano, tracciato in forma corsiva da un ignoto copista in lingua romanza istituisce un’analogia tra l’azione del contadino con l’aratro in un campo e quella dell’amanuense con la scrittura sulla carta:
“ se pareba boves alba pratalia araba et albo versorio teneba et negro semen seminaba”,
che tradotto ha questo significato:
“ teneva danti a sé i buoi, arava bianchi prati e aveva un bianco aratro e un nero seme seminava”.
Altro documento, questa volta in volgare campano (placito capuano) riguarda una contesa sui confini di proprietà tra il monastero di Montecassino e un piccolo feudatario locale. In particolare, tre testimoni, dinanzi ad un giudice, deposero a favore dei benedettini, indicando con un dito i confini del luogo che era stato illecitamente occupato da un contadino dopo la distruzione dell’abbazia (883 d.C.) Nella deposizione viene citato:
“Sao ko kelle terre, per kelle fini che qui contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti”.
Un affresco con una iscrizione nella basilica romana di San Clemente realizzato tra il 1084 e il 100 d.C. è testimonianza straordinaria di un miracolo di questo Santo che aveva convertito al Cristianesimo Teodora, moglie del prefetto Sisinnio, collaboratore fidato dell’Imperatore Nerva. Sisinnio ha un sospetto e segue la moglie nella catacomba dove celebre la messa Papa Clemente, la raggiunge ma non riesce a rivolgerle la sua ira perché Papa Clemente lo acceca.
Sisinnio poi si ammala e ordina ai suoi servi di trascinare in prigione San Clemente, ma questi in realtà si è liberato ed i due servitori non stanno trascinando il santo , ma una pesante colonna senza accorgersene:
“SISINIUM: Fili de pute traite
GOSMARIUS: Albertel, trai
ALBERTELLUS: Falite de reto co lo pano, Carvoncelle !
SANCTUS CLEMENS: Duritiam cordis vestris, saxa traere meruistis
Il significato è questo:
SISINNIO: Figli di putt…titate !
GOSMARIO: Albertello, tira
ALBERTELLO: Mettiti dietro a lui con il palo, Carboncello
SAN CLEMENTE: A causa della durezza del vostro cuore avete meritato di trascinare sassi.
In ogni regione di Italia, crocevia di scambi, commercio, si parla un volgare differente dovuto alle varie colonizzazioni.
Un’altra opera in volgare importante è quella che narra le vicende storiche dell’Urbe tra il 1325 ed il 1357 e si sofferma in modo particolare sulla vita di Cola di Rienzo (Cronica di Anonimo Romano).
La Roma del XV secolo era una città di oltre 50 mila abitanti, i quali parlavano un dialetto simile al napoletano, una varietà linguistica meridionale (tristiloquim - definito da Dante).
L’appartenenza ai dialetti meridionali andò man mano scomparendo. La presenza a Roma del Papa e dei cortigiani e funzionari provenienti dalla Toscana ed in particolare da Firenze contribuì alla “ smeridionalizzazione” del romanesco.
Con la discesa a Roma dei Lanzichenecchi nel 1527 ( servi della terra che arruolavano il personale tra gli strati piu’ bassi della popolazione) Roma fu saccheggiata, la cittadinanza locale decimata e costretta ad andarsene, a rifugiarsi altrove.
La città arrivò a contare 30 mila abitanti, kdi cui la metà erano di altre regioni. Il Pontefice divenne una figura, polo di attrazione per funzionari, banchieri, mercanti, poeti, letterati, filosofi, umanisti quasi tutti provenienti da fuori Roma.
Si creò così un distacco tra i ceti medio-bassi che parlavano il vecchio vernacolo romanesco ed i nuovi cittadini di uno stato più abbiente che parlavano un vernacolo più simile al toscano e che comunque vivendo a stretto contatto con la corte papale avevano bisogno di una lingua comune per comunicare.
Per concludere, dalla lingua cortigiana si passò a quella di scrittori come Giovanni Camillo Peresio, Giuseppe Berneri, Benedetto Micheli, autori di poemi epico-cavallereschi che per Giuseppe Gioacchino Belli non rispecchiavano quello che era il parlare romano che il poeta stesso per sua volontà andò a riscovare nei bassi meandri della società cittadina.
Il Belli scriverà nel 1833 nella “Plebe Romana-Meditazzione”:
“Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che è oggi la plebe di Roma . In lei sta certo un tipo di originalità: e la sua lingua,i suoi concetti, l’indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, la credenza, i pregiudizii, le superstizioni, tuttociò insomma che la riguarda, ritiene un impronta che assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo. Né Roma è tale, che la plebe di lei non faccia parte di un gran tutto, di una città cioè di sempre solenne ricordanza (…): Non casta, non pia talvolta,sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo; e questo io ricopio, non per proporre un modello ma sì per dare una immagine fedele di cosa già esistente e, più, abbandonata senza miglioramento”.
In questo ultimo documento troviamo la descrizione del popolo romano: un popolo che ha mantenuto le sue radici , evolvendosi nel tempo. Il resto è storia di tutti i giorni.
Roberto Ciavarro

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