Recensione: La Patria Poetica Di Umberto Piersanti - A Cura Di: Rossella Frollà Giurata XIV Edizione




E' un luogo altro nella fisicità del tempo dove tu hai percepito il mondo e ti sei formato, quello è il tuo luogo» (Umberto Piersanti) da La breve stagione (1967) Frammento lirico Ricordi la casa perduta tra i greppi il sapore del fieno e l’immensa famiglia contadina? Il primo bacio stupito ai Cappuccini e Dio e la morte a sedici anni? Nei versi di questo primo libro batte il cuore di tutta l’opera piersantiana che si colloca nell’asse orizzontale di un «tempo perduto», di un «tempo differente» e di «fuga», di un «tempo pieno», in una compartecipazione dei ricordi con la Natura nobile, con il mondo sensibile dell’immanente. Come fosse incollato ai vetri lo si guarda per tutta una vita.


Sono presenti i nuclei tematici che sostanziano la poetica dell’autore: le «figure magiche» le «favole antiche», le leggende, il rito pagano dell’eros, la ciclicità delle stagioni e gli eventi in mutamento, la metamorfosi del mondo. Urge sin da questo esordio un Altrove memoriale e mitico che segna il passo di un «tempo differente». Ma nel cuore di questo tempo « [ … ] commuove il ragazzo immortale/alla luce chiara di gennaio/ha il cammino lieve di un Dio/e una femmina tenera sulla spalla». Un ragazzo che testimonia il suo tempo come simbolo mitico dell’età degli ideali e dell’adolescenza. L’immagine diventa per il poeta il luogo del ritorno, l’incontro con la storia come impegno e fuga da ciò che si vuole guardare da lontano o da cui si può anche prescindere .


Si colgono dunque le premesse di un significativo luogo di appartenenza privato, un luogo laterale al mondo. Si fa strada la polemica tra personale e politico che anticipa tesa a inaugurare una poetica altra, indomabile. Come scrisse Carlo Bo: «Umberto Piersanti è impastato di vita e mira alla vita». Si espressione dell’Io lirico, scisso dalle forme pubbliche di contesto. La Natura contrasta la storia e tutto ciò che minaccia il mito dell’adolescenza come corsa eroica verso la vita che sarà dolorosamente schiacciata dagli eventi. La poesia si oppone al tempo e alla storia nel gesto di fuga privilegiato nel «tempo differente» Già da Passaggio di sequenza il tempo non minaccia più, così da vicino, alcuna cosa né luogo né rappresenta il precipizio della memoria.


Il flusso ritmico esplode nell’entusiasmo di un rapporto più ricco e più maturo con l’Eros e la Natura, distante dalla percezione poetica de La breve stagione e dal rianima la fitta vegetazione mitografica di fiori, piante, colori, elfiche emozioni in cui pare sia stata metabolizzata la memoria e l’antico male de L’urlo della mente. Un concerto di purezza linguistica e di sana tradizione lirica viene musicato dalle Cesane, dai luoghi persi, amati, riconosciuti e tratteggiati fino all’immortale sentire, aperti al mito e alle epifanie classiche e celtiche come risposta competitiva, non consolatoria, a una legge che in natura toglie e consuma ogni bene e ogni bellezza, come canto misterico leopardiano di antica memoria.


Quello di Umberto Piersanti è un «calibrato controcanto» con il D’Annunzio nell’invocazione dell’Alcione dell’estate, Di quest’ultima estate che perdura nella possibilità di in quegli anni la rivendicazione culturale al diritto dell’Io esistenziale che per il poeta rappresenta la tutela e la massima tempo differente. L’unico suono da cui il poeta si lascia trattenere e si lascia pervadere è l’istante, l’intervallo di tempo che ha un inizio e una fine. Nella trilogia einaudiana , («opera mondo», scrive Massimo Raffaeli) saranno le stagioni, i mesi, la nomenclatura attenta di piante e fiori a resistere al tempo e al mondo in tacito accordo con il presente. La perdita non è più un tradimento improvviso dell’esistenza, una stagione della vita, ma qualcosa di essenziale che resta nella qualità originaria di ogni cosa.


Il linguaggio lirico, elegiaco, fin da subito risanare una «convalescenza che perdura». Così I luoghi persi si aprono all’amara consapevolezza e al divenire sempre presente: «sospende l’anno in me le sue stagioni/sento il trapasso lungo la ferita/del mio tempo più amato che s’invola». distante dalla dogmatica «eversione linguistica» imperante in quegli anni, è una condizione naturale Sono i toni di una connotazione semantica flebile e persa nell’evocazione dell’assenza, tentativo urgente di nel strappare


Attraverso l’atto poetico una realtà arcaica contadina irrimediabilmente persa per sempre e riportata in vita dal mito, mai enucleato di senso e di speranza. La reverie fonde Assenza/Permanenza in Unità poetiche che crea l’armonia del contraddittorio il mito che assurge a metamorfosi del luogo in Patria poetica.


Si apre un endecasillabo epico, mai prosastico come in Cucchi e meno orlato del canto mitologico di Conte. Lo sguardo prensile cattura l’Eros e la Natura nell’atto della sua vitalità avvolgente e della sua caducità, in un rapporto quasi pacato aveva deciso di cambiare il suo corso e lascia al poeta una struggente, luminosa attesa che inquieta: «oggi m’inquieta il tempo che m’attende/[ … ] che senza consultarmi mutò il corso //questa vicenda lunga come la vita/forse cambia chi viene e non conosco/io nell’attesa sono come sempre/in giro sui miei colli nella cerchia/e poi vado lontano e qui ritorno.».


Il dilatarsi della tempesta emozionale si quieta in una vertiginosa rappresentazione cosmica dei sensi, lontani dalla ragione cartesiana, trasfigurati nel «luogo» che torna alla sua gloria: «dopo l’aprile torna/alla sua con la fine delle cose.


C’è un’immersione luminosa nei dettagli degli oggetti e dei racconti che vola sui «quarant’anni messi di traverso». Il paesaggio si illumina di epifanie pascoliane arcaiche e rurali, dei silenzi inquieti (La biscia) e magici della natura (Il favagello, Il giglio d’acqua, Lo spino bianco…) e delle credenze popolari (Lo sprovinglo, il folletto, le euforbie). E Cespi, fiori, animali sono dentro Il tempo che precede la dura ferita della «vita che si dispera/e che perdura.». L’antica casa è «il miglio tempo è quello/che precede», è la «nostalgia», la fiaba che protegge l’io dal reale. La realtà sarà la dura prova di fronte a un figlio autistico per il quale scriverà una delle sue più belle e intense poesie: La giostra (dalla raccolta de Il tempo che precede).


E allora si fanno profetici i versi de I luoghi persi, scritti per l’attesa di Jacopo, in un momento in cui la vita gloria,/s’accende il tulipano/dentro il verde/e gocciola il ciliegio/in faccia al sole». Dalla terra, dunque, non risalgono gli umori consolatori, ma lo scatto vigoroso, lo slancio naturale trattenuto nella sua originaria bellezza. Ciò che guida alle profondità della vita e della coscienza è la «fuga» in ascesa sugli scorci celesti e sui crinali, il passo del “viandante” che condivide con Bertolucci: l’uno contadino tra lo «scotano rosso» delle Cesane, l’altro Feudatario mite tra i sentieri e i calanchi di Casarola. Li unisce una «percezione esistenzialista» utile a testimoniare quel cono d’ombra, quell’ultimo orizzonte altrimenti intangibile del mondo.


Sono entrambi musicati dall’«essenza del tempo» che illumina ogni fiore, ogni incandescenza tematica ed espressiva, assenze e presenze, fughe e ritorni ombre e soli. Sono immagini che nascono dal silenzio della Natura popolato da inafferrabili folletti, da creature immobili alle euforbie che hanno frantumato il sigillo della disperazione caro ai «canti rochi di fanciulle brune» della poesia di Trakl (Sussurrato nel pomeriggio). Quello di Piersanti non è mai un silenzio passivo, svuotato di senso, non eclissa la gioia, è una risorsa fatta di epifanie cosmiche dove anche il buio è radioso.


Il culto del verso che contatta d’urgenza la terra sovrasta ogni cosa. La pienezza del sentire è il Paradiso presente «al di qua» che rimanda a Milo De Angelis (La somiglianza), visitato con lo sguardo da flâneur.


Il Paradiso presente del «pastore» dell’Appennino è il più prossimo allo sguardo dell’uomo ma anche il più lontano dal mondo romantico di Novalis, è lo sguardo tra memoria e visione con sull’Appennino l’occhio vigile contadino, rappresentato non solo come nostalgia, ma come condizione di sofferenza e di privazioni.


È doveroso ricordare che il mondo arcadico pastorale della classicità, quello lunare settecentesco e quello romantico ottocentesco sono stati corrosi e risucchiati dalle prime “abbreviazioni” ideologiche-politiche, neoavanguardiste e solo pochi autori hanno restituito l’adesione ad un paesaggio totale. Piersanti trasduce il topos letterario classico in un vedere e udire oltre il dettaglio nomenclatorio pascoliano, oltre quella dovizia del particolare tanto caro a Pascoli, per affrancarsi da pronunce impressioniste ed esprimere a pieno la sua Weltanschauung che si contrappone ad ogni esattezza geometrica e si avvicina alla vaga indeterminatezza leopardiana.


Il tempo determina e scandisce le vicende in un movimento che abbraccia la Natura dentro ogni storia. Il suo umanesimo è un vagabondare fisico tra Urbino e le Cesane seguendo con lo sguardo i «torricini» e da lì la «strada di rinascimentale Piero», di la Piero strada della Francesca. A stretto contatto con gli «asfodeli» del Catria, la «lunaria», il «prugnolo fiorito di gennaio», il «giglio delle nevi», il «favagello giallo», saccheggia dall’anima popolare le fiabe celtiche che ornano i boschi, «pieni di esseri strani», fate e folletti.


Il suo è un avviarsi appagato tra gli sfondi rinascimentali dei colli intorno a Urbino, per quei sentieri dell’«eterno femminino espresso dai volti materni e sensuali delle madonne di Raffaello». Ma, qui, protagonista del quadro è il paesaggio dentro cui si intesse ogni storia. É un Rinascimento assaporato d’ostinato amore (La nave di Teseo, 2020). In questa raccolta la parola si fa interprete quieta e visionaria di quell’ideale di bellezza classica che nutre anima e luoghi tra magia e leggenda e illumina quel canone quello slancio primigenio del poeta di «sprofondare con la testa dentro l’erbe».


Lo stupore sempre vivo per la Natura si fa speranza dichiarata come passione del possibile, lontana da retaggi religiosi e vicina all’intuizione di un avvenire più ampio, pieno di e mai perso che il poeta intende salvare secondo una circolarità epicurea e mitografica dove la contemplazione dell’immagine non può che dare senso e voce al volto della storia e della Natura.


Dalla trilogia einaudiana si raccoglie la natura lirica e libera di Umberto Piersanti, non più governata da un rassicurante endecasillabo, che per indole aiuta la compostezza del verso, ma più precipitata e con qualche asprezza di ritmo che ogni tanto si coglie. In ogni caso sempre musicato da tonalità ampie e fluide. Le strofe che aprono I luoghi persi sono di diversa ampiezza e tengono il ritmo degli endecasillabi sciolti (Muta il mio tempo cambia la vicenda).


Il poeta è inquieto per l’imminente paternità ed è già pronto a lasciare la Natura, come ricerca del tempo assoluto, ma si naturalizza in questa raccolta una fermezza visionaria e immaginifica che non perde mai di vista il reale, l’antica memoria («madre che eri fra tutte la più gentile …») e il presente. Sarà la raccolta più bella e più intensa e più viva di tutta la sua opera cui può tener testa, sino ad ora, solo Campi mitografico in cui non si distingue quasi più tra il bello di natura e il bello poetico.


È nella permanenza di questa regola dettata altrove, tra il sé e parola, il mistero della poesia fino alla sua massima elaborazione attraverso un’intima fede del luogo, della memoria, dell’uomo.


Un verso lucido e quieto traccia con le sue lacrime luminose la via. Le rêverie risalgono la soglia come «i cori che vanno eterni/tra la terra e il cielo». Hanno radici «in remoti boschi», dove «l’assurdo poco oscura/nevi e foglie/non scolora i bei crochi/nei greppi folti,/ma il tuo male/figlio delicato,/quel pianto che non sai/se riso stridulo/che la gola t’afferra,/più d’ogni artiglio,/questa bella famiglia/d’erbe e d’animali/fa cupa/e senza senso/e dolorosa». La parola illumina e cura il cammino doloroso, fragile e frastagliato del genitore.


Il dolore assoluto si fa respiro chiaro che dal profondo restituisce con le rêverie il senso di quiete e di pienezza, la crescita interiore che non spezza il contraddittorio Male/Natura ma crea armonia in una bellezza assoluta. Il presente si fa grazia che non spezza promesse che risalgono l’armonia del paesaggio urbinate, i colli dolci e ordinati. Vi è in Piersanti maturo l’intuizione di qualcosa d’altro che va oltre il peso del sacrificio e del dolore. È il discorso di una ostinata postura d’amore che sfiora il tempo e le distanze e ogni smarrimento e ogni cosa che «s’è persa dentro l’aria».


L’io lirico di una coscienza non ancora assoluta ricerca qualcosa/dietro «ostinato/se ogni metamorfosi/permane». Il poeta si avvicina al mistero del dolore che lo accompagna senza quella pressione immensa che schiaccia ma con lo sguardo prensile sulle cose del mondo, con lo slancio vitale che accoglie la fragilità, le ombre straziate, il sacrificio, la stanchezza. Vi è un equilibrio interiore che garantisce al poeta una serenità imperturbata e lo pone nella condizione di esaudire questa intima aspirazione dell’anima.


 Rossella Frollà Giurata XIV Edizione 


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