Quando Leopardi scrisse la canzone “A Silvia” si trovava a Pisa, dove, proveniente da Firenze, era giunto nel novembre del 1827, soggiornando in tale località fin verso la metà dell’anno successivo. Fu, questo, un periodo particolarmente felice per la sua produzione poetica perché, grazie al clima che fu mite durante tutto l’inverno, sentì migliorarsi in salute e la sua musa, dopo alcuni anni di interruzione, precisamente dal 1823, si ridistese al canto. E, “col cuore di una volta”, come lui stesso scrisse alla sorella Paolina, compose la canzonetta “Il Risorgimento” e quel canto, “A Silvia”, stupendo di immortale bellezza.
Il componimento, che fa parte dei grandi idilli, è ambientato a Recanati, nel periodo della prima giovinezza del poeta, ossia in quel settennio di studio “matto e disperatissimo” (dal 1809 al 1816), in cui apprenderà le lingue classiche e moderne e produrrà tante opere soprattutto di erudizione, ma che gli causerà un terribile mal d’occhi e minerà per sempre la sua salute.
Ma chi è Silvia, cui il poeta si rivolge nel settenario d’inizio della poesia? Alcuni critici la ritengono una finzione poetica; altri la identificano in Teresa Fattorini, una ragazza adolescente figlia del cocchiere di casa Leopardi, che il giovane Giacomo guardava dalla sua finestra con occhi -chissà! - da innamorato, morta di tisi polmonare nel 1818. Silvia (nome preso dall’Aminta di Torquato Tasso) è comunque il simbolo della giovinezza infranta e delle speranze dissolte.
La canzone si può suddividere in due parti. Nella prima parte il poeta si rivolge a Silvia ricordandole il felice periodo dell’adolescenza, quando la fanciulla, risplendente di grazia e bellezza, attendeva ai suoi lavori femminili abbandonandosi al canto e ai sogni, ed erano sogni connotati da vaghe speranze che sgorgavano dai profumi e dai colori della primavera e dalla dolce attesa che questi si realizzassero. E il poeta, ascoltando quei canti che sapevano di giovinezza, tralasciava i suoi studi e le “sudate carte” e si abbandonava anche lui ai sogni, immergendosi come Silvia nella luce della primavera e nell’azzurra visione del mare e delle montagne.
Purtroppo (e siamo alla seconda parte del componimento) giunge rapida la disillusione, espressa dal poeta con parole che gridano di disperazione. Perché lui sente la speranza svanire: è la Natura che gliel’ha rapita, ed ecco che allora sgorga dal suo cuore un’invettiva contro la stessa che prima promette e poi non mantiene, mostrandosi una perfida ingannatrice; quella natura che, nella prima fase del suo pensiero, aveva descritto come benigna, velando essa coi suoi “ameni inganni” la cruda realtà della vita, ma che poi avverte come matrigna perché, dotando l’uomo di ragione, lo ha indotto a strappare quel “velo di Maia” che copre il reale, facendogli conoscere “l’orrido vero” cui sono condannate tutte le cose, cioè la Morte, e con questa la nullificazione del tutto.
Infatti una crudele malattia condanna Silvia alla morte, negandole la giovinezza e l’amore. Così come succede al poeta, che, negli ultimi versi del canto, esprime la sua amara disillusione nella potente immagine della speranza fuggente nel mentre gli indica con la mano “la fredda morte e una tomba ignuda”: un destino, questo, che coinvolge l’umanità intera, e il pessimismo si fa “cosmico” e traveste ogni cosa, il Tutto naufragando nel “Nulla”, che è la necessaria conclusione dell’esistere.
Il componimento “A Silvia” è uno dei più belli e coinvolgenti di Leopardi, che, sul piano metrico, si definisce “canzone”. A differenza però della canzone petrarchesca, che presenta una costruzione metrica molto rigida (stesso schema rimico nelle varie strofe o stanze, tutte con la medesima lunghezza, cioè con lo stesso numero di versi endecasillabi e settenari disposti, nelle varie stanze, nell’identica posizione, e con congedo finale), quella leopardiana è detta “libera”, perché le stanze, nello stesso componimento, sono di diversa lunghezza; inoltre endecasillabi e settenari sono posti a piacere, così come le rime.
È uno schema, questo, inventato da Alessandro Guidi (1650-1712), ma che Leopardi perfezionò da grande poeta qual era e perciò prese il suo nome. Però l’eccellenza del componimento sta soprattutto nel linguaggio e nella profondità dei pensieri e sentimenti che esprime. Un linguaggio sì dell’ottocento, ma che, nel contempo, è di una modernità sconcertante, perché Leopardi lo plasma così come solo lui sa fare, connotando le parole di un’inimitabile originalità e di sublime bellezza. Ed è un linguaggio semplice, ma di una semplicità che è il punto di arrivo di un intenso lavorio sul testo e, quindi, di un’accurata scelta delle parole che gli derivano dal fatto che, prima di volgersi alla poesia, era stato un fine filologo. E ciò spiega anche la presenza di figure retoriche, quali i suoni allitteranti (rimembri ancora), gli ossimori (lieta e pensosa), le anafore (che speranze, che cuori), le apostrofi (o mia Silvia; o natura, o natura), le metonimie (sudate carte), le metafore (lieta e pensosa; il limitare di gioventù; il fior degli anni tuoi); e poi “quel vago avvenir”, cui la mente della fanciulla è rivolta e che lei pregusta pieno di ancora incerte, ma rosee promesse. Ne risultano versi magnifici, a dimostrazione della grandezza del poeta, che riesce sempre felicemente a fondere il significante col significato, ossia la parola col suo vissuto.
Un vissuto che, come s’è visto, è improntato al pessimismo e gli deriva da una concezione materialistica della vita di chiara impronta settecentesca. Che aveva ispirato anche la poesia di Foscolo, che però vede nelle illusioni, e in particolar modo nel concetto della poesia eternatrice, lo strumento per superare la nullificazione dell’esistenza, mentre per il poeta recanatese tutto si conclude nella morte e nel nulla.
È un mondo, quello di Leopardi, che cattura empaticamente la mente e il cuore del lettore, che sente come suoi i sentimenti e i pensieri del poeta, avvertendo anche lui di essere stato derubato della speranza e delle dolci chimere della giovinezza e naufragando nel gran mare delle emozioni che sanno di disillusioni e di speranze perdute.
Per tutti questi motivi Leopardi –che nel suo penultimo canto, La ginestra, passò dal pessimismo cosmico a quello eroico– può essere considerato, insieme a Schopenahuer, Kierkegaard e altri, un precursore di quel variegato e complesso movimento filosofico e insieme letterario che è l’esistenzialismo.
Giacomo Leopardi: un poeta di prima grandezza, un nostro orgoglio nazionale che risplende, al pari di Dante, come stella Sirio nel panorama poetico mondiale per ciò che ha scritto, per come l’ha scritto e per la perenne attualità del suo pensiero.
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