IL Primo Memorabile Uragano Della Pianura Padana (Paravella Giuliano - 1° Classificato, Sezione: Racconto Saggio Breve)


X CONCORSO LETTERARIO «CITTA’ DI GROTTAMMARE»



Marco Silvani era uno sconfitto. Era stato un uomo molto potente e discretamente perfido, un tempo. Roba di un quarto di secolo fa. Sarebbe francamente ozioso, adesso, interrogarsi su come sia stato possibile che un mascalzone della sua risma abbia avuto la possibilità di governare, indisturbato, la settima potenza mondiale – in fondo, parliamoci chiaro, è successa la stessa cosa anche con la prima, e con ogni probabilità succederà ancora. Sta di fatto che per tre anni e sette mesi – milletrecentotredici giorni, per la precisione – il presidente Silvani aveva fatto il bello e cattivo tempo sull’onda di un consenso popolare talmente sbalorditivo che, giocoforza, lo aveva portato a montarsi la testa più del dovuto e, come si conviene in questi casi, a esagerare.

I prepotenti sono fatti così: bambini cresciuti male, fondamentalmente ingenui. Non gli passa nemmeno per l’anticamera del cervello che le infatuazioni del popolo, quelle folgoranti, siano invariabilmente meschine quanto transitorie. La sua era stata una caduta vertiginosa e umiliante, per niente indolore, alla quale erano seguiti anni di lenta agonia, fino all’insignificanza. Dalle stelle alle stalle. A settant’anni suonati, Marco Silvani era da tempo l’ombra di se stesso, un povero vecchio invecchiato male, dimenticato da tutti e roso dal rancore. Dell’uomo potente di un tempo gli era rimasta – intatta – soltanto la perfidia. Si era ridotto a vivere come un pezzente a bordo di un barcone ormeggiato in riva all’Isola Bianca, dalle parti di Pontelagoscuro, in mezzo al Po.

Aveva deciso di consumare i suoi ultimi anni circondato dalle acque del fiume sacro che aveva nutrito le sue ambizioni, padrone incontrastato di quella piccola isola disabitata che, soltanto a pronunciarne il nome, aveva il potere di tenere a bada le sue ossessioni. Marco Silvani, sia chiaro, era un uomo molto malato. Passava le giornate a scrutare l’acqua, col fucile in braccio, aspettando di veder passare, in lunga processione, i cadaveri dei propri nemici. Durante gli anni frenetici vissuti da condottiero sulla cresta dell’onda, aveva sviluppato un rapporto decisamente malsano con i cadaveri galleggianti e con le armi da fuoco. Ogni tanto, sparava a un ramo trascinato dalla corrente o a qualche nutria in cerca d’approdo, tanto per mantenersi allenato.

Marco Silvani non aveva la tv, non possedeva uno smartphone né tantomeno un computer. Dopo i primi tre giorni di pioggia ininterrotta, non aveva avuto modo di ascoltare gli appelli della Protezione Civile, e in ogni caso avrebbero dovuto sparargli una siringa di narcotico per convincerlo ad abbandonare il suo barcone. Quando era arrivata l’ondata di piena, l’imbarcazione aveva rotto gli ormeggi e lui, maledicendo il cielo, aveva scaricato il fucile contro la nuvolaglia. Per tutta risposta, il ciclone aveva scatenato la sua devastante furia sull’intera pianura.

L’aveva risvegliato, due giorni dopo, il rumore degli elicotteri. Intorno a lui non c’era più un fiume, l’acqua era dappertutto, fino all’orizzonte. Non riusciva neppure a capire quale fosse la direzione della corrente e se da qualche parte esistesse ancora una foce. Il barcone era quasi immobile, stranamente incagliato in qualcosa che poteva sembrare un guardrail o il parapetto di un ponte. Gli elicotteri vorticavano in aria alla ricerca di qualche disperso. Il primo istinto era stato quello di nascondersi e di imbracciare il fucile. Prima o poi doveva accadere. Che il clima stesse cambiando era sotto gli occhi di tutti, nonostante la cinica indifferenza di coloro che avrebbero avuto la possibilità di intervenire per metterci un freno. Il Po e la pianura, per fare un esempio, non erano più quelli di una volta. Negli ultimi decenni, la siccità e i nubifragi – potenza degli ossimori – avevano cambiato il paesaggio e le abitudini. Ogni anno un po’ di più, senza che questo impedisse all’opinione pubblica – croce e delizia di antropologi e strizzacervelli – di minimizzarne le conseguenze.

Detto fuori dai denti: l’avevamo voluto a tutti i costi, il nostro piccolo uragano nel giardino di casa. Il primo pensiero di Marco Silvani di fronte a tutta quella devastazione fu, semplicemente, che non tutti i mali venivano per nuocere. Fece una rapida stima dei campi Rom spazzati via dal ciclone e si disse: Tutti soldi risparmiati in ruspe.

Faraj Bayrakdar aveva avuto un’infanzia complicata. Non aveva ancora otto anni quando era stato costretto ad abbandonare la propria casa per sfuggire alle bombe di Assad. Prima in Libano, poi in Egitto e poi ancora in Libia dove – dopo un’attesa di quasi due mesi in un serraglio per bestie – in piena notte e senza troppi complimenti, lo avevano caricato – insieme a una folla di disperati stipati come sardine – su un barcone tenuto assieme con lo sputo: non certo il meglio per una crociera nel mediterraneo. Non era stato affatto un viaggio di piacere.

Appena partiti gli avevano sparato addosso, erano stati assaliti, percossi e derubati; poi, quando ancora non avevano raggiunto le acque italiane – aveva perso il conto dei giorni di quella traversata da incubo –, la bagnarola si era ribaltata. Era stato costretto a nuotare in mezzo ai cadaveri, aggrappato a un rottame, finché dal buio non era spuntata una nave. Sbarcato in Italia, erano stati cazzi. Faraj Bayrakdar, però, non si era perso d’animo e, alla fine, era riuscito a cavarsela più che egregiamente, tanto che adesso, ad appena quarant’anni, dava lavoro a centocinquanta dipendenti, metà dei quali italiani. Il ciclone l’aveva sorpreso nella sua azienda di Ro Ferrarese.

Anche lui aveva ignorato l’ordine di evacuazione, si era rifiutato di abbandonare quello che aveva costruito – non era già abbastanza aver dovuto rinunciare alla sua casa di Aleppo? Seduto nel suo ufficio, aveva invocato la misericordia di Allah, ma a conferma che gli esami non finiscono mai, e che lui in fin dei conti era un tipo fortunato ma non troppo, il suo dio aveva deciso, sì, di risparmiargli la vita, ma non il frutto di tutti i suoi sacrifici. Morale: come trent’anni prima, si era ritrovato a mollo, abbarbicato a un legno alla deriva in un mare a dir poco sui generis. Quando aveva avvistato il barcone di Silvani, aveva tirato un sospiro di sollievo, ma troppo presto.

– Ehi! Ehi! C’è qualcuno? An-najdah! – Cazzo vuoi? – Meno male, Al-Hamdu Lillah. – Te lo ripeto: che cazzo vuoi? – Ma non vede? Mi aiuti, per favore. Yallah! – Fuori dalle balle, saddàm! – Yallah! Sbrigati, vuoi farmi annegare? – Te ne restavi a casa tua, nel deserto in groppa al cammello, e il rischio di annegare non lo correvi di certo. Forza, smamma. – Ma sei matto? – Non farmi perdere la pazienza, abdùl: gira al largo. O preferisci che ti riempia il culo di piombo? – Ibin sharmootah!
Tayeb Salih e Naruddin Farah erano come fratelli. Anche loro erano scappati da una guerra – una in Sudan, l’altra in Somalia – e, dopo due anni di peripezie, si erano ritrovati a fare i volontari nella Protezione Civile di Ariano in Polesine – vedi a volte l’ironia della sorte. Insieme, si erano già fatti un paio di terremoti, un’alluvione e un dissesto idrogeologico tra Emilia e Veneto, soccorrendo un numero imprecisato di malcapitati, per la quasi totalità autoctoni.

Dopo l’uragano, erano stati mandati col loro gommone a perlustrare la zona di Berra. Avevano avvistato il barcone e sentito gridare. E avevano immediatamente fatto rotta verso il disgraziato che si stava sbracciando nell’acqua torbida. In fondo, nonostante tutto, Faraj Bayrakdar era un uomo fortunato. Vedendoli arrivare, Silvani era andato su tutte le furie: Ancora altri negri, cristo d’un dio. Aveva puntato il fucile nella loro direzione, ruggendo un Fuori dalle balle! con la bava alla bocca e, senza aspettare una risposta, aveva fatto fuoco ad alzo zero. Mancando il bersaglio. Messo in salvo Faraj – il primo arabo del loro palmarès – Tayeb e Naruddin, col cuore in gola, erano ripartiti a razzo, non senza aver salutato quel vecchio stronzo con un sontuoso Vaffanculo! urlato all’unisono in un perfetto italiano privo di inflessioni dialettali.

Chinua Achebe, dopo aver imparato a pilotare elicotteri nell’esercito nigeriano, aveva avuto il suo bel daffare per vedersi riconosciuto lo status di profugo. Non era dovuto fuggire da una guerra, lui, ma da un pregiudizio. Gli piacevano gli uomini, niente di male per carità. Solo che nel suo Paese l’omosessualità era un reato, punibile con la morte. Quando aveva ricevuto alla radio la chiamata di Naruddin a proposito di un tizio che era uscito fuori di testa, stava sorvolando Este. L’acqua era arrivata incredibilmente fin lì. Lo spettacolo era a dir poco straniante, come rivedere su schermo panoramico le immagini di New Orleans dopo il passaggio di Katrina. Chinua Achebe scrutava quell’acqua scura ossessionato dal presentimento che da quel momento in poi niente sarebbe più stato come prima: il Po, la pianura, la sua gente; i campi di mais e di pomodoro, il grano, le fabbriche. Non si trattava di un fenomeno atmosferico eccezionale, no: era un punto di svolta, una via senza ritorno. E questa consapevolezza lo avviliva.

Individuato il barcone, era sceso con l’elicottero dei vigili del fuoco a pelo d’acqua, per dare un’occhiata da vicino. Inutilmente. Non vide anima viva e pensò che, forse, il pazzo potesse essere caduto in acqua. Girò un’ultima volta intorno al barcone, a non più di due metri di distanza, poi, mentre virava per ritornare alla base, ci fu un’esplosione e il vetro della cabina andò in frantumi. Dopo aver tirato il grilletto e visto l’elicottero che sfrecciava via incolume, Silvani si era sentito in trappola. Pensò: Alla fine ci sono riusciti, ’sti cazzo di negri. Aveva ricaricato il fucile e si era preparato a vendere cara la pelle.

Athiq Rahimi era nato a Fermo. I suoi genitori venivano dall’Afghanistan. La madre suonava il pianoforte e il padre, che aveva le guance glabre di un bambino, era un fotografo: tutte cose che i talebani vedevano come il fumo negli occhi. Scappare in Italia era stato l’unico modo per sopravvivere. A Fermo avevano trovato un’accoglienza che non si erano neppure azzardati a sognare: una casa e gente cordiale che salutava col sorriso. E poi, il conservatorio “Pergolesi”, un negozio di foto e un ospedale dove far nascere un figlio.

Athiq Rahimi avrebbe potuto seguire le orme della madre, ma aveva preferito arruolarsi nei Carabinieri, forse per un innato desiderio di giustizia, o come istintivo gesto di riconoscenza verso il paese che aveva ospitato la sua famiglia. Dopo qualche anno passato nella stazione di Cupra Marittima, era stato trasferito in Emilia e adesso, promosso al grado di tenente, comandava il nucleo fluviale dei carabinieri che pattugliava il Po dalla confluenza del Panaro fino alla diramazione del Po di Goro. Il fiume gli piaceva: aveva imparato a conoscere la sua gente e le sue storie. Storie incredibili, anche, come quella del mostro alto due metri con le dita palmate che in molti, tra Cologna e Polesella, avevano giurato di aver visto con i propri occhi. Il Po è da sempre luogo di misteri e di loschi traffici.

Il mattino successivo alle sparatorie, aveva deciso di recarsi personalmente sul luogo del misfatto per far luce sulla vicenda. Aveva preso posto, con l’appuntato Rota – un bergamasco di Pontida che parlava un dialetto assai simile all’afgano –, sul motoscafo dell’Arma pilotato dal carabiniere scelto Cantalamessa Salvo e insieme erano partiti a tutta velocità per operare il fermo dello squilibrato.
Silvani li stava aspettando col fucile spianato. Immaginate il suo sbigottimento nel vedere che l’imbarcazione dei carabinieri, arrivata a sirene spiegate e pronta all’abbordaggio, era comandata da un giovanotto in divisa che sembrava lo Scià di Persia. – Appoggi per terra quel fucile, lei è in arresto. Marco Silvani era rimasto immobile, l’occhio nel mirino a fissare il punto di congiunzione tra le sopracciglia di quell’impostore con la fiamma dorata sul cappello. Poi aveva fatto fuoco.
Era successo tutto in tre rapidissimi fotogrammi in sequenza. Il tenente Rahimi che stramazza al suolo. La raffica dalla mitraglietta d’ordinanza dell’appuntato Rota. Il corpo disarticolato di Silvani che precipita in acqua. Nient’altro.

L’identità del cecchino del barcone non è mai stata accertata. Si è ipotizzato che potesse trattarsi di un pericoloso latitante, un pregiudicato calabrese evaso dal carcere di Frosinone, oppure di un vecchio affetto da disturbi bipolari scomparso due anni prima da una casa di cura in provincia di Pordenone.

Nel corso dell’attività investigativa non è emerso alcun riferimento al nome di Marco Silvani: del resto, nessuno ne ha mai denunciato la scomparsa. Le ricerche del cadavere, fino ad oggi, sono risultate del tutto infruttuose. Qualcuno, nelle osterie lungo gli argini del grande fiume, continua a essere convinto che se lo sia mangiato il mostro con le dita palmate. Anche se, forse, più semplicemente, è il Po che si rifiuta di restituire quello che dovrebbe essere per sempre cancellato dalla memoria.

Ah, dimenticavo: il tenente Rahimi sta bene, si è sposato e continua a prendersi cura del suo fiume. Nemmeno la mira c’aveva di buono, Silvani.




GIULIANO PARAVELLA ha pubblicato nel 2007 il volume di racconti "Suitcase in my head" (Eumeswil ed.) con prefazione di Davide Sapienza. Alcuni brani sono apparsi sulla rivista di critica letteraria "Satisfiction". Ha recentemente partecipato ad alcuni concorsi letterari, classificandosi al 2° posto nella prima edizione del Premio di narrativa “Gianna Vancini” e al 4° posto nel Premio nazionale “Articolo 32”. Nel 2019, con il racconto "L’oceano fuori dall’uscio", ha vinto la XI Edizione del Premio Letterario Internazionale Città di Cattolica – Pegasus Literary Awards

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