Il Respiro Della Primavera (Premio Ordine Nazionale Dei Giornalisti)

VI Concorso Letterario "Città Di Grottammare"

Associazione Culturale "Pelasgo968" - Grottammare



Il Respiro Della Primavera (Premio Ordine Nazionale Dei Giornalisti)

di GABRIELE ANDREANI (Pesaro)

Si era in primavera. Solo in questa stagione azzurrina ogni essere sensibile s‟illumina di un immenso e allegro splendore. La nuova vita freme nelle alte foreste ancora innevate e, più a valle, nelle frondose boscaglie, nelle vigne e nei campi odorosi, scorre nell‟acqua impetuosa dei fiumi che si spingono fino al mare e vibra nei cuori ancora capaci di accendersi. Tutti, proprio tutti, persino gli animali notturni e gli spettri assonnati, l‟attendono impazienti, la cercano nell‟aria, sulla terra nuda e sui rami, invocano, nelle notti irrequiete, il suo respiro.

Ma in primavera, e solo in primavera, accadono altre cose, strane, insolite, inspiegabili, folli…
Un mattino, quando il cielo era ancora pallido, Igor uscì di casa. Con una sciarpa turchese di cachemire avvolta intorno al collo, che gli arrivava al naso, e un cappello di feltro calcato sulla testa entrò in un negozietto di scarpe. A quell‟ora, nessun piede scalzo s‟aggirava tra gli scaffali o si misurava le scarpe, gli scarpini o le scarpette leggere. Con un gesto solenne, fissando gli occhi della scortese proprietaria, grondante di rossetto e di grasso, che conosceva solo di vista, tirò fuori dalla tasca dei pantaloni uno scintillante coltello e, dondolandosi come un salice, si fece consegnare l‟incasso della giornata precedente.

Nel grigio e confuso retrobottega, prima di andarsene, sferrò un pugno sul brutto becco di quell‟uccello incipriato. Un fagotto di carne sfatta e di scialbe piume cadde a peso morto sulle scatole di cartone accatastate alla porta del bagno. Nessun grido aleggiava nell‟aria che sapeva d‟incenso e di gomma, solo il respiro di un corpo sbattuto contro il pavimento echeggiava lontano. Ogni altra cosa, se gemeva, gemeva in silenzio.

Una volta fuori, nel mite tepore dell‟aria, inforcò la sua bicicletta: un regalo d‟altri tempi di suo padre. Un giorno l‟aveva ritrovata in un angolino del garage sotto un cielo di ragni blu, con la testa in giù e i pedali arrugginiti. Commosso, aveva unto la catena con il sangue delle sue stesse vene.
Pedalò, col mento proteso in avanti, appena qualche minuto. Varcò la soglia di un bar in cui non era mai stato. Nella luce glaciale della stanza vuota i caffè e i cappuccini trattenevano ancora il respiro e tremavano di freddo.

Dall‟altra parte del bancone, un ripugnante vegliardo sulla settantina, triste come il penoso inverno appena trascorso, abbozzò un lieve sorriso. Igor ordinò un caffè. Quando l‟altro, di spalle, già manovrava le leve della macchinetta, lo colpì sul cranio con un martello che teneva nascosto sotto il giubbotto. Un respiro rantoloso, autunnale, gorgogliante di catarro, soffocò su una pedana di legno, strisciò, si alzò, tramontò e lentamente si spense. Igor afferrò il poco denaro che era nella cassa e sfilò dalla giacca dell‟uomo il portafoglio.

Quando era già sulla porta urtò un‟ombra, immobile come un lampione spento, su una sedia a rotelle. Furioso, indispettito, irritato abbassò gli occhi e, dopo averlo attentamente squadrato, vibrò nell‟aria un violento calcio e mandò a gambe all‟aria, con tutta la forza che aveva, quel corpo ripugnante. Poi, con un ghigno sulle labbra impastate di schiuma, lanciò lontano la carrozzella e gridò: “Striscia sull‟asfalto verme, cammina sulle acque morte!”

Ebbro di follia, salì di nuovo sulla bicicletta e sparì dietro una curva. In una via stretta e senz‟anima, intravide in lontananza una bianca vecchia sbilenca con un fazzoletto nero in testa, immersa nella sua vecchiaia, che camminava nel sonno. Quando se la trovò davanti, frenò bruscamente e fissò quell‟odioso viso appassito. Mentre lei lo guardava in modo sinistro, con un rabbioso movimento delle mani, la spinse contro il muro di un convento di suore, le diede una gomitata in pieno volto e, con la ruota anteriore della bicicletta rivolta verso l‟azzurro cielo, la colpì ripetutamente sul collo grinzoso. Infine, si allontanò appagato.

Si arrampicò, ansimando, su per una collina e raggiunse la casa colonica che era stata di suo nonno. Appese a un chiodo la bicicletta nel capanno degli attrezzi, nascose il coltello e il martello nel ripostiglio e si rintanò nella stanza da letto. Si buttò sul materasso, cercando di dormire, ma di prender sonno non gli riusciva proprio: lì faceva più freddo che fuori. Dopo un quarto d‟ora fece scivolare le gambe sul pavimento e uscì fissando un pensiero che lo tormentava.

La campagna intorno alla casa sorrideva, l‟aria riluceva, il fogliame degli alberi, gonfio di uccelli verdi, frusciava e canticchiava. Igor assorbiva con tutto il suo essere quel lieve tepore, quegli odori freschi, quella meravigliosa armonia di colori che solo la natura è in grado di partorire, abbracciando con gli occhi quel mare ricamato di timidi fiori.

Si sedette su un tronco di legno fradicio e tarlato in mezzo all‟erba che straripava ovunque. Ai suoi piedi, una lunga fila di formiche formava una linea compatta che marciava sui sassi e sulla nuda terra. Quelle che uscivano dal formicaio sfrecciavano veloci, le altre, quelle che tornavano indietro, procedevano goffe e lente.

Quest‟ultime, quasi tutte, s‟erano buttate qualcosa sulle spalle. Igor guardò meglio. Dove la lunga fila aveva termine, formando un capriccioso groviglio, i poveri resti di un irriconoscibile insetto giacevano su un tappeto di polvere. Ogni formica correva qua e là, annusava l‟aria, fremeva, spingeva e allontanava le altre, fiutava quelle spoglie, ne prendeva un pezzettino e ripartiva. Alcune, però, erano costrette ad abbandonare quel pesante carico lungo la strada del ritorno, altre ancora, le più minute, quelle più anziane o malate, tornavano indietro sfatte e deluse, e dopo aver implorato il perdono della regina, si coricavano subito su una branda o andavano a morire sotto una foglia.

Con un gesto d‟impeto Igor s‟inginocchiò. Liberò la strada dai sassi, dalle foglie ancora marce, dalle radici secche e dalle piccole croste argillose, la spianò, la livellò, eliminò i dossi e i cunicoli.
Si sentì soddisfatto. Ora sì che quella era una vera autostrada, ora sì che le formiche potevano galoppare e sgambettare veloci, ardite, insolenti, su e giù, avanti e indietro! Fu colto da una tal emozione che il cuore sobbalzò dalla gioia.

Dopo mezz‟ora circa si congedò dalle festanti formiche. Estrasse dalla tasca della camicia il telefonino e chiamò Regina, la sua ragazza. La pregò, sussurrandole dolci parole, di raggiungerlo lì.
Frattanto il tempo si era guastato. Le nuvole erano come accigliate e nel cielo una luce fredda fiaccava il volo delle farfalle. Igor, rientrato in casa, ascoltava con impazienza il rumore dei suoi passi sulle mattonelle e di tanto in tanto guardava dalla finestra il bianco del cielo e della campagna.
Dopo un po‟ Regina, celeste come un giglio selvatico, apparve in fondo al sentiero. Era l‟immagine di una madonna primaverile apparsa all‟improvviso sul viale del suo tramonto…

“Ciao amore mio, finalmente sei arrivata!” esclamò a voce alta Igor andandole incontro tra i campi con un fiorellino spaventato in una mano. Regina ricambiò affettuosamente il suo saluto con un bacio primaverile, portandosi al petto quel delicato pensiero rosso.

“Ti devo parlare… ho delle cose importanti da riferirti… entriamo… presto!” le disse in tono risoluto.

“Che ti è capitato, amorino?” chiese lei subito dopo, accostando il viso a quello di lui. “Non mi hai mai chiamata così presto… ancora dormivo… è accaduto qualcosa? Sta male qualcuno?”

“No… niente di tutto questo” la rassicurò Igor. “Hai notato qualcosa di strano venendo qua?”
“No, assolutamente nulla. Dovevo vedere qualcosa? Sono arrivata con il trentasette. Sull‟autobus c‟erano solo quattro gatti e su per il sentiero non ne ho incontrati altri. Perché me lo hai chiesto?”
“Così… per scrupolo, per curiosità… Ora ti dirò delle cose che devi assolutamente sapere. Siediti, io starò accanto alla finestra, mi viene più facile parlarti attraverso i verdi occhi della primavera.”
Regina si sedette, con le orecchie tese come le antenne di un grillo, su una dura panca di legno.
“Dunque… da dove posso cominciare… vediamo… Ah, ecco! Stanotte ho fatto un sogno a dir poco singolare. Di questo sogno ricordo però solo qualche frammento… Ero sottoterra, ma ero vivo… Respiravo appena, ansimavo, muovevo le mani, smuovevo la terra, inghiottivo il buio. Alcuni grossi topi scuotevano il mio corpo, fremevano, mi strappavano i capelli, mi entravano dentro attraverso i vestiti. Cercavo di allontanarli ma non ci riuscivo… All‟improvviso si sono levate queste parole, grevi come piombo: “È primavera, svegliati, scrollati la terra di dosso! Scappa da questo buco nero, segui l‟istinto... solo l‟istinto, non la ragione, ti salverà; noi abbiamo scavato per te tutta la notte... ti abbiamo preparato la via verso la luce. Non vedi che fuori è già giorno? Destati… afferra l‟eterna primavera!”

Mi sono svegliato di soprassalto, stordito, stralunato, mi sono lasciato vestire da due mani sporche di terra e, subito dopo, sono uscito di casa…”

Infine, le raccontò, con una voce che non era più la sua, ciò che aveva fatto in seguito.
Regina era sbalordita, sbigottita, la bocca le tremava, le narici palpitavano… Igor, il suo ragazzo, il suo buon ragazzo aveva fatto quelle cose tremende! Singhiozzava, balbettava, non voleva credere a quel racconto… ma forse, urlò dentro di sé, anche quelle facevano parte del sogno mentre Igor le credeva vere. Glielo disse esitando, trepidando, piangendo a dirotto.
Igor confermò tutto quanto, sogghignando soddisfatto, pieno di sé, orgoglioso di quelle imprese funeste.


Regina continuava a piangere… non aveva mai smesso di piangere…

“Perché?” gli domandò, pallida in viso, “perché tutto questo?”
Lui la guardò con freddo distacco. “Questa notte sono cambiato… il sogno mi ha cambiato… finalmente ho compreso che devo vivere in modo diverso… fino a ieri ero prigioniero delle mie contraddizioni e delle mie ragionevoli, sì proprio così, ragionevoli e impure riflessioni sul senso della mia vita. Il peso di saggezze imperfette soffocava le mie forze primitive e i miei istinti. D‟ora in poi nulla sarà più come prima.

Sarò un animale nuovo, senza ragione, senza pensieri, senza paura! Non mi difenderò solo quando verrò attaccato… vivrò inconsapevole… darò sfogo ai miei impulsi irrefrenabili, primordiali, traboccanti come il magma che gorgoglia in un cratere, turbolenti come i gorghi di un fiume senza passerelle, barchette di carta o ranocchi che ascoltano musica dalle cuffie. Agirò senza mai più interrogarmi, abbandonerò ogni costrizione, ogni laccio, ogni inibizione, i buoni consigli e tutto quel che ne consegue.

Amare il prossimo è fonte di continua sofferenza. Oggi ho rubato, ho colpito perché così sentivo di dover fare… di dover essere… Le mie innate pulsioni, ancora disordinate e annebbiate, giustizieranno ogni elemento razionale… Gli istinti… sì, gli istinti e nient‟altro! Quando un animale deve espletare un bisogno fisiologico, non sta a pensare: “La faccio o non la faccio?” La fa! E, se anche non volesse, la fa! Alla fine la fa… questo è certo!
Non spaventarti Regina, non inorridire, non mi disprezzare, oggi è andata così e domani succederà ancora. Ah! La primavera, l‟eterna primavera! Quante cose accadono in primavera! La pungente e ibrida aria primaverile squarcia le menti…

Ma, ti supplico, non temermi, Regina, non potrei mai e poi mai far del male alla mia Regina… senza di te non potrei neppure sopravvivere, senza di te non mi rimarrebbe che un‟unica via, senza di te non ci sarebbe la luce, non regnerebbe che il buio…”
Regina piangeva lacrime invernali. Quando le ebbe consumate tutte, ne cercò altre nel suo cuore semplice ma non le trovò. Balbettò solo qualche monosillabo, tanto era lo sgomento, tanta la disperazione. Poi, lentamente, si riprese, alzò gli occhi umidi e lo guardò.
“Igor… proprio tu hai fatto quelle cose… tu che mai hai fatto del male a qualcuno! Proprio tu che tempo fa, mentre andavamo in bicicletta sul lungomare, ti sei voluto fermare per non dover schiacciare sotto le ruote tutte quelle piccole lumache che, dopo la pioggia, attraversavano la strada illuminata dal sole! No, non è possibile… è tutto così assurdo, inverosimile, incredibilmente triste… mi fai compassione… non sei più tu… stai male…”

“No Regina, amore mio, non mi sono mai sentito così bene! Oggi, senza pensare, ho fatto delle cose che mai avrei immaginato lontanamente di concepire! Ora potrei compiere qualsiasi azione…”
“Igor, non dire così, mi fai paura… hai preso qualcosa, non è vero?”
“Nulla amore mio, mi sono semplicemente svegliato in modo diverso…”

“Farai una brutta fine… anch‟io la farò! Prima o poi ti prenderanno, non potrai farla sempre franca… l‟istinto ti ruberà la vita... i giorni di primavera non durano a lungo, fuggono via, verrà l‟autunno e poi l‟inverno, il freddo e la neve… la bufera già incombe… Mio Dio, sono sconvolta…”
“Che importa se morirò o finirò dentro! Già ero all‟inferno! Ho subìto ben altre torture io! Ho represso fin troppo la mia vera, reale impetuosa natura! E poi, cara, non sono così cattivo: i soldi che ho rubato li ho dati al ragazzo nero del posteggio…”

Le si avvicinò con cautela. Lei non lo voleva. Respingeva le sue mani sporche di sangue, i suoi baci beffardi, i suoi selvaggi sguardi. Era diventata pallida, cerea, non sapeva più cosa pensare, cosa dire. Si figurava il volto tumefatto della donna delle scarpe, il cranio squarciato dell‟uomo del bar, la sedia a rotelle capovolta, il sangue che zampillava dal collo della vecchia. Quei disgraziati erano morti o soltanto feriti? Aveva voglia di fuggire, di tornare a casa, di andare in un qualunque altro posto, di non rivederlo mai più.

Senza mostrargli più il viso, dopo un respiro profondo, si alzò e, soffocando i passi e le ultime lacrime, si accostò alla finestra. I campi muti, le tetre colline, il cielo grigio le ispiravano malinconia, inquietudine e compassione. Aveva tanto amato e amava ancora quel bel ragazzo alto, biondo, serio, pacato, modesto, buono, generoso… poteva continuare all‟infinito… ora non lo riconosceva più! Era un altro quello che le aveva parlato, un suo sosia, un suo surrogato oppure il diavolo stesso. E ora era lì davanti a lei…

“Devo andare…” gli disse, sforzandosi di apparire calma, “a casa mi stanno aspettando; ci vedremo più tardi, chiamami nel tardo pomeriggio…” Ma già sapeva in cuor suo che non l‟avrebbe mai più voluto vedere, che il loro grande amore era finito per sempre.

“Non te ne andare, sii indulgente con me! Ho bisogno di te… tu sei tutto per me… sei il mio giardino fiorito…una perla d‟azzurro cielo… senza di te sono meno di niente… una bestia feroce divorata dall‟istinto… farò quello che mi dirai… sarò il tuo fedele cane… sogneremo insieme e per sempre un‟infinita primavera…”

Le si avvicinò di nuovo, con garbo e tenerezza. Lei si abbandonò smarrita tra le sue braccia come un fantoccio di pezza, come un‟anima morta che non può respirare, che non conosce il linguaggio dell‟amore. Si sentiva fiacca, mesta, intirizzita e fredda come un uccello sul tetto di un campanile nella lunga notte invernale.

Lui, stregato dall‟odore della primavera, le accarezzò dolcemente i capelli, le asciugò con le labbra le ultime lacrime fredde e, intuendo di averla per sempre perduta, strinse con forza indicibile le sue mani, impazienti e nervose, sul collo bianco e liscio di lei.
Fuori la pioggia cadeva sottile nella luce variopinta, vagando nell‟aria umida, coprendo gli schiamazzi delle rane e il vociare degli uccelli.

Igor si sentì ancora più forte e la tentazione di altri orrori, di altre crudeltà, che sono proprie dell‟uomo e solo dell‟uomo, si fecero più violente.

GABRIELE ANDREANI vive e lavora a Pesaro. È alla sua prima partecipazione al Concorso Città di Grottammare.

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