L’Ultima Parola (Premio Club UNESCO S. Benedetto d.T.)

VI Concorso Letterario "Città Di Grottammare"

 Associazione Culturale "Pelasgo968" - Grottammare


di DANIELE DONATI (Ascoli Piceno)

Per Margherita – mia moglie – la passione, e l‟amore, e l‟affetto non smisero mai di esistere, né, mai, alcuno di questi sentimenti si affievolì, ma anzi ne sopraggiunse uno inaspettato, il più potente di tutti: la rabbia.

La rabbia, che da anni montava dentro di me, era spuntata dapprima timidamente come un esile filo d‟erba, ma poi, ne fui avvolto completamente. Quella malerba mi soffocava, stritolava la mia mente confusa.

Rimanevo chiuso in casa per giorni, a volte perdevo il senso della realtà e rimanevo seduto a fissare la cosa che più di tutte mia moglie adorava: la sua gazza. Amata da mia moglie più di ogni altra cosa, persino più di me. Restava con lei a scambiare parole che l‟uccello ripeteva con voce umana, così vera da essere innaturale su quella bestia raccapricciante.

La testa e il collo completamente neri, come pure il becco e gli occhi: due sfere lucide, inespressive come due biglie di vetro. Il petto bianco, il dorso azzurro e infine la coda verdastra. Anch‟io l‟avevo osservata attentamente, ne conoscevo ogni sfumatura, ogni riflesso, e quando quel becco ricurvo si apriva per emettere un suono umano, un senso di disgusto trasudava da ogni poro della mia pelle.
Margherita, invece, pareva rapita da quell‟animale. Sembrava quasi fosse la gazza a pronunciare le parole che mia moglie ripeteva senza capirne il senso, e se ne stavano lì, nel soggiorno, a scambiare vocaboli privi di ogni collegamento l‟uno dall‟altro.

Odiavo quella gazza, tanto quanto amavo mia moglie. Una donna magra, pallida, cagionevole come una farfalla era però di animo buono e gentile. Non capii mai il motivo che la spinse a legarsi così tanto alla gazza. Forse, in lei vedeva qualcosa che io ignoravo del tutto. A volte però, quando erano insieme, contemplavo anch‟io quei due esseri così diversi eppure così uniti.
Era in quei momenti che percepivo una strana attrazione. Vedere la mia lattescente e delicata moglie sorreggere un animale così inquietante, e tristemente legato a lugubri leggende del passato, era qualcosa di così cotrastante che quasi ipnotizzava la mia attenzione.

Margherita non c‟era più, e quella sera, alle ventitré in punto sarebbe passato un anno esatto dalla sua morte. Per un anno intero la sua gazza non disse altre parole all‟infuori di una sola. Pronunciata alle undici di ogni sera:era l‟ultima parola detta dalla mia amata Margherita un istante prima di morire.
Quel maledetto uccello non aveva mai saltato un giorno. Puntuale come un orologio, il suo beccaccio nero si apriva e proferiva quella dannata parola con la stessa delicata voce di Margherita, tanto da sembrare lei in persona.

Non ne potevo più! La rabbia per la donna che smise di amarmi, divenne odio. Odio per la bestia che me l‟aveva portata via.

Perché non la strangolai? Invece la tenni con me per un anno, costretto a sentore l‟agonia di mia moglie. Ancora, e ancora, e ancora.

Il soggiorno era territorio della bestia, sul trespolo troneggiava, spiccava su tutto come un sovrano che, in cima alla torre, sorveglia i suoi sudditi. La nutrivo e pulivo i suoi escrementi; aveva stregato anche me. Vivevo nel terrore di udire quella parola, eppure ero lì, a ingozzarla di cibo e pulire la sua merda. Volevo sentire la voce della donna che amavo, nonostante lo sgomento mi pietrificasse.
Lei capiva, sapeva. Mi teneva in gabbia mentre vivevo non più la mia vita, ma la sua. Una vita fatta di giorni identici, scanditi dal rintocco di una sola ora, di una sola parola. In fondo credo di sapere il motivo per cui divenni il suo schiavo: nella gazza c‟era Margherita! Ne aveva assorbito lo spirito, c‟era qualcosa di lei in quella bestia così astuta, così empia. Non poteva essere altrimenti, ne ero certo. La teneva prigioniera dentro di sé.

Presi la decisione: il demone piumato dagli occhi di vetro andava ucciso.
Dopo un anno di tormenti andava fatto! Proprio in quella particolare sera, a un anno esatto.
Dimagrito, scavato, con la pelle cadente e molle, i pochi capelli rimasti sulla nuca unti e fragili, come le ultime foglie secche su un albero malato, omai i nervi non reggevano più la tensione che mi tritava. Come potei permettere ad uno stupido uccello di impossessarsi della mia vita. Odiavo anche me per questo, odiavo qualsiasi cosa in quella casa – il suo regno.

Attento sovrano, attento! Il popolo si sta per ribellare.

Cenai in cucina: non credo di essere mai riuscito ad abituarmi a mangiare, dormire, passeggiare da solo. Non che prima facessi tutto con mia moglie, ma sapere che c‟era mi rassicurava, ero in pace. Una pace di cui non godo più.

Attesi pazientemente seduto in poltrona, nel silenzio di una casa abbandonata a se stessa, nel silenzio di una mente ormai abituata ad ascoltare una sola parola.

Dieci e quaranta. Ancora venti minuti, poi le onde sonore emesse dalla gazza si sarebbero insinuate nelle mie orecchie, avrebbe risalito il condotto uditivo e, trasformate in impulsi elettrici, avrebbero raggiunto il cervello. Quel flusso di elettroni aveva un significato: l‟ultimo suono di Margherita, l‟ultima sua parola.

Non sarebbe successo più.

Mi avvicinai più del solito alla bestia, ruotò leggermente il capo e mi guardò. Mai ero entrato nella sua stanza a quell‟ora; è così che capì le mie intenzioni, ma non fece nulla, anzi, tornò nell‟esatta – immobile – posizione di prima. Aveva capito, come capiscono gli animali portati al macello.

La disprezzai ancora di più! Sapeva di morire e non si scompose, non volò via. Niente.

Doveva morire alle undici in punto, così rimasi al suo fianco, in attesa dell‟esatto momento. Un solo minuto che durò tutto l‟anno passato con la gazza, un minuto che bastò a riempirmi, ancor di più, di disprezzo e di paura.

Eravamo soli; due esseri totalmente diversi, eppure, ugualmente soli. Orfani di Margherita.

Mi gettai al collo della gazza con tale livore che quasi caddi sopra di essa, la strinsi forte tra le ossute mani, le mie unghie si conficcarono tra le piume prima e nella carne poi. Non un verso, non un grido di dolore dalla bestia. Strinsi forte il collo esile e nero, la tenevo di fronte a me. Erano le undici.
Nel momento in cui la vita stava per fuggire dal suo corpo e la brillantezza degli occhi di vetro si spegneva, dal becco uscì quella parola.

“Pietà”.

Non ne ebbi di pietà. Nemmeno questa volta.

DANIELE DONATI è nato e vive ad Ascoli Piceno. Docente presso l' ITS "G. Mazzocchi" di Ascoli Piceno. Scrive da due anni e questo è il secondo concorso a cui partecipa.

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