Intervista A Carlotta Wittig "Floridiana, La Figlia Del Rinascimento" Chi Più Neart Edizioni, Prima Classificata (Premio Romanzo Storico) - A Cura Del Nostro Giurato Paolo Montanari






Mi si perdoni se non esprimerò alcuna dotta opinione circa il cosa sia ( per me e non per me) il romanzo storico. Ve n’è di varie epoche e tipologie, e troverei improprio da parte mia, che semplicemente narro, rubare spazio ai teorici della letteratura. 

Posso dire di averne letti, e con vero gusto, se belli, parecchi. Ma allo stesso modo avevo trangugiato, già nei primi ventanni di vita, e con altrettanto gusto, se non avidità, buona parte della grande narrativa europea. Folgorata – e stravolta - da ‘Delitto e castigo’ a dodici anni, acquietata poi dalle più tranquille acque di ‘Guerra e pace’ – a cui però subito preferii la Karenina – navigai per altri anni in queste fluviali generosissime acque russe; a sedici mi arenai sull’enigmatico, ma al tempo stesso imperativo, Ulisse joyciano. Troneggiava sul tavolo giapponese del salotto, con la livrea verde e oro delle edizioni Medusa. 

Nessuno me l’aveva prescritto, pure mi sarei sentita indegna di me stessa se non l’avessi scalato e penetrato. Resistette a lungo ai miei assalti. Scarsamente propensa ad affidarmi a mediazioni teoriche – esperti ed esegeti che avrebbero potuto facilitarmi il compito – preferivo l’attacco diretto. Gli dei, impietositi, mi fornirono la chiave: l’ultimo capitolo ( e non a caso lì il flusso scaturiva proprio da una mente femminile, Molly Bloom) mi fornì il codice di decifrazione. 

Dopo, la montagna poté esser conosciuta. Seguirono poi lunghe immersioni in altri affascinantissimi e più latini mari. Hugo, Balzac, Stendhal soprattutto, Rouge et noir in testa. A diciotto m’immersi nelle profondità sottomarine di Proust, dove rimasi a lungo imprigionata. Eccetera, eccetera. E poi tutto o quasi Thomas Mann. E Kafka. E James. E l’italiano – ma farei meglio a dire siciliano, che non è la stessa cosa - Pirandello. Tralascio, per non annoiare, l’intero ‘storico’ delle mie vicissitudini di lettrice. Che in questa intervista occupano lo spazio del ‘ci parli un po’ di lei’. 

Aggiungo solo che nei miei trentanni di lavoro per la televisione, come sceneggiatrice, di cui i primi dieci in una Rai ancora colta e consapevole, sorta di Paradiso Perduto rispetto all’attuale, svariate volte mi fu chiesto di sceneggiare romanzi. Ottocenteschi. “Una donna”, di Sibilla Aleramo segnò il mio fortunato esordio. Dunque, in qualche modo, questa attitudine al resuscitare remoti passati è traccia che ha costellato tutta la mia vita.

Ma ritorniamo a Bomba: che cos’è il romanzo storico per me? Perché ne ho scritto uno, impiegando sei anni nelle imprescindibili ( e ossessive) ricerche? E perché attualmente sono nuovamente affondata in altre estenuanti – e insieme ghiotte - ricognizioni storiografiche? Necessarie al volume che farà seguito a questa prima Floridiana? Diciamo che appartengo a quella stirpe di narratori di romanzi storici che in un’altra epoca, e nel suo sentire clamorosamente disgiunto da quello dell’attuale, cercano innanzitutto scampo e respiro. E cercano, in quella, rispondenza di valori, di credo e anche di non credo, rispetto ai disvalori imperanti nel tempo del loro attuale passaggio terreno. Un tempo - per loro - alieno, dove per un qualche dispetto di Dei giocherelloni si trovano attualmente impigliati. Un tempo, sempre secondo il loro sentire, inutilmente tossico. 

Un’atmosfera bigia, grossolana, oppressiva in cui sempre più recalcitranti si trovano a dover vivere e faticosamente respirare. E non mi riferisco certo all’effettivo impaccio respiratorio delle attuali mascherine. Per me quindi l’approdo definitivo al romanzo storico ha significato questo: uno svincolo definitivo da una contemporaneità che più vivo e meno amo. Meno condivido. E da cui ogni giorno che passa, mi sento maggiormente offesa. Contemporaneità che peraltro dovevo già condividere ben poco a diciassettanni, quando sottobanco, liceo classico Galvani di Bologna, durante certe ore tediose, andavo tratteggiando una mai compiuta pièce teatrale sulla congiura Pisoniana. Per inciso, quella ordita sotto il regno di Nerone. Dove trovarono la morte, tra gli altri, Seneca, Lucano e lo squisito Petronio.
 
Un vita dopo, ho ripreso dal punto di partenza. Ché la prima parte di ‘Floridiana’ si svolge in Firenze al tempo della Congiura dei Pazzi. Evidentemente, il Leitmotiv della Congiura risuonava già allora familiare nelle stanze della mia scrittura. Perché? Me lo sono chiesto. Forse perché morendo giovani, le Congiure muoiono anche belle. Motivo d’incanto per il narratore. A volte nobilissime, a volte meno, condividono quasi sempre lo stesso destino: falliscono. Sia che il tiranno appartenga al genere elegante e soft, come Lorenzo il Magnifico, sia che si chiami Adolf Hitler. Nascono come vitalissimi germogli di sdegno, d’insopportazione morale: il Tiranno ha oltrepassato ogni limite di decenza, di giustificazione politica, è necessario estirparlo. Sono giuste, ma acerbe come fanciulli. Muoiono, io credo, perché nelle aule giudicanti della Storia (che altri tempi, codici e ragioni hanno rispetto ai nostri) il verdetto non è ancora stato emesso. Poi lo sarà. Coincidendo spesso con quello pronunciato dai congiurati, e oltrepassando, magari, le loro più accese speranze. Ma non nel tempo da loro decretato. La Storia detesta essere anticipata. 

E vengo a Floridiana. Personaggio d’invenzione, come prima di lei sua madre Beatrice. Ma si muove e respira all’interno di un cast stellare, come si direbbe oggi di un film. Personaggi certificati da altissimo pedigree, rilasciato dalla Storia. Lorenzo il Magnifico, per citare il più importante. L’elegantissimo e sfaccettato Signore di Firenze. E la sua famiglia. L’amareggiata sposa, Clarice Orsini. La primogenita lucida e saggia, Lucrezia, il vanesio e tormentato Piero, su cui grava l’impari compito di raccogliere un’ingestibile eredità paterna. E il mite, flemmatico Giovannino, che diventerà poi Papa. E il saturnino, ispiratissimo gigante gnomo: Marsilio Ficino. E una Pleiade di artisti, tra cui spicca, per consonanza di sensibilità con la bambina precoce e segnata, Sandro Botticelli. Solo per nominarne alcuni. Sullo sfondo, a Roma, vediamo farsi avanti un’altra, vitalissima e incontinente Casa: quella dei Valenciani Borgia. Nel momento in cui questo primo romanzo si conclude Floridiana è ancora una bambina. Ma i nove anni di certi bambini patrizi di allora valevano i diciannove di oggi. A nove anni difatti Floridiana è già segretamente sposata (anche se ovviamente ‘in bianco’). E’ orfana di padre e di madre – entrambi vittime della Congiura dei Pazzi. Sa tirare di scherma, cavalcare, danzare. Ha buone conoscenze della lingua latina, di quella greca, dell’astronomia e dell’astrologia, della scienza delle erbe, della falconeria. 

Ha conosciuto gli orrori dell’Inquisizione che sotto i suoi occhi ha messo al rogo la sua nutrice. Lo splendore del Rinascimento, invece, lo incontrerà a Firenze. Adottata dal Magnifico, approda in una delle Case più prestigiose del suo tempo, dell’Italia e dell’intera Europa. Se mi si chiede: perché, Floridiana? Cosa ho visto di necessitante in lei, per prendermi la briga di partorirla e consegnarla al mondo? Bene, se me lo si chiede, prenderò a prestito la battuta conclusiva del Magnifico alla fine del romanzo.

‘Sei stata con noi tre anni, Floridiana. Eri piccola, d’accordo. Ma non poi tanto. Tu non devi essere stata mai davvero piccola. Ti sei dissetata, in Firenze e nella mia Casa, a un calice straordinario. Sei stata adottata da Marsilio Ficino, allattata da Platone. Hai giocato a palla con Sandro Botticelli nei giardini delle nostre ville, e hai visto come fa nascere Venere e tramontare la Primavera. Angelo Poliziano ha improvvisato sonetti in tuo onore. E così tante e tante altre anime eccelse si sono chinate con benevolenza sulla tua fronte bambina, perché ne hanno intuito la straordinaria capacità intellettiva, e recettiva. Noi stiamo per andarcene, Floridiana. 

E’ una cosa che io sento con lucida chiarezza. Bisogna dar credito alle rarissime visioni di uno che visionario non è. E con noi si spegnerà tutto un mondo, si disgregherà un’armonia, perirà quell’equilibrio di Terra e Spirito che solo può rendere Uomo l’uomo. Non m’importa in che modo lo farai - se con moltitudini o con poche genti. Ma promettimi che la Luce di ciò che hai visto tu la consegnerai al mondo a venire. E che lo farai incessantemente, senza curarti di chi potrebbe deriderti o esser sordo o cieco o semplicemente mediocre. E’ un sublime mondo morente quello che ti consegno, e tu al mondo dei vivi dovrai restituirlo. Mi hai capito? Prometti?’.

 Nel romanzo, Floridiana promette. E con lei, prima di partorirla, ho promesso anch’io. Restituire a chi leggerà un mondo, un’epoca sfolgorante, fragile e insieme immortale. Un tempo in cui – al di là delle necessarie ferocie che politica e storia sempre includono – bellezza, arte e cultura parvero avere ‘mani e piedi’, per dirla con Hegel. E alitarono copiose per le vie di Firenze, e da lì si riversarono nel mondo interocome un contagio benigno, che invece di trarre all’opacità, a un buio incompreso, ogni volta che ci colpisce, allora come adesso, irrora il nostro essere di Grazia. Di Senso. D’Infinito.


Comments