La Lezione Di Dante Al Mondo






Nel settecentesimo anniversario della morte di Dante non sarà inopportuno far cenno alla strana sorte che egli ha avuto nella cultura anglosassone, la stessa da cui si leva oggi il più alto tributo di ammirazione per lui. Fino al milleottocento e soprattutto al millenovecento, 

Dante è poco amato in Inghilterra, pur essendo conosciuto, a partire dal XIV secolo, ad esempio da Chaucer (nei cui Racconti di Canterbury è assai più facile ravvisare, tuttavia, l’influsso di Boccaccio) e dagli scholars, custodi della tradizione classica. 

Anche nel Rinascimento, quando tutta l’Europa guarda all’Italia e grandi poeti inglesi (come Sidney o Spencer) s’ispirano dichiaratamente a Petrarca, Dante rimane refrattario all’Inghilterra. Né lo ama l’età elisabettiana, allorché tutta una soggettistica anche minore, coltivata nelle corti italiane per la scena, prende a riversarsi a piene mani nella produzione drammaturgica di un Marlowe, di uno Shakespeare, di un Jonson. Neppure la violenta passione antipapale e la polemica antiromana di Dante lo faranno amare nello scismatico regno che era stato di Enrico VIII; 

Dante verrà ascritto all’anticattolicesimo anglicano al pari del pensiero dei Gesuiti, o di altri ordini dottrinariamente mobilitati nella Controriforma. Agli inizi del Seicento il sanguigno drammaturgo Jonson lo liquida espressamente come oscuro, poco comprensibile, appartenente al passato. E’ infatti proprio il distanziamento dal Medioevo, del quale viene guardato come grande anima, ad allontanargli la letteratura inglese del periodo; e in seguito il rigetto peggiorerà scolasticismo con illuministico l’anti(in particolare con l’antidantismo derivato da Voltaire), che approfondirà il solco di distanziamento da lui anche in poeti e scrittori dediti a tematiche allegoriche o morali. 

Nel secondo Seicento e nel Settecento l’isola al di là della Manica sta assumendo dimensioni, ignote al mondo, di potenza commerciale lanciata sui mari, con un popolo, di servi della gleba, o quasi, affrancatosi dalla secolare servitù ai landlords per diventare “popolo sulle navi” e l’alta voce di Milton a farsene anima. Col progredire dell’Ottocento, dopo essere stata culla della rivoluzione industriale e avere consolidato il suo predominio mercantile, l’Inghilterra arriva a dominare un quarto del mondo; a partire da allora la sua cultura matura quell’egemonia, tuttora perdurante, sulle altre culture del pianeta. Sono l’Ottocento e il Novecento, per un percorso particolarissimo, deflagrare Dante nella a far cultura anglosassone. Seguendo vie ancora ampiamente da indagare, egli assurge a riferimento ineludibile per più correnti e filoni della poesia, della critica, del pensiero, della figurazione e di ogni espressione artistica. Non solo episodici traduttori, ma grandi poeti s’ispirano a lui, quali Shelley, Keats, Byron, Tennyson, nell’Ottocento; e, nella prima metà del Novecento, Pound ed Eliot.

Soprattutto con Thomas Stearns Eliot (1888-1965) che Dante viene riscoperto e richiamato a penetrare ogni aspetto della cultura contemporanea; non tanto per il suo portato ideale, religioso, che ormai risale a sei secoli prima, quanto per la sua insuperata grandezza poetica. Autore de La terra desolata e dei Quartetti, nonché figura gigantesca dal punto di vista culturale ed editoriale (anche prima di essere insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1948) Eliot ricolloca Dante al centro della scena culturale del Novecento. Cosa ne scrive? 

Dopo averlo citato, anche in italiano, moltissime volte nella sua produzione poetica, drammaturgica e critica, gli dedica i saggi Dante I (del 1920, che precede di due anni la pubblicazione de La terra desolata); il lungo Dante II (del 1929) e Cosa significa Dante per me (del 1950, testo dell’intervento di Eliot all’Istituto Italiano di Cultura di Londra). A sedurre Eliot è la “assoluta precisione” di ogni verso e di ogni singola parola, che fa di Dante “il più accorto studioso poesia”,”il dell’arte della più serio, attento e scrupoloso professionista del mestiere di poetare”, nel quale nessun poeta inglese può essergli paragonato, neppure Shakespeare o Milton, “in quanto poeti a lui inferiori, e anche tecnici a lui inferiori in quest’arte”. 

Per esempio Shakespeare, rispetto alla lingua inglese “si prende delle libertà giustificate solo dal genio, mentre Dante, dotato di pari genio, non se le prende; e il grande padrone di una lingua dovrebbe esserne il grande servitore”. Dante il…”generatore madrelingua”; è della dunque sua senza di lui “il linguaggio corrente non sarebbe quello che è, si tratti del linguaggio di un poeta, di un filosofo, di uno statista o di un facchino delle ferrovie”. 

Mi limito a un esempio” -scrive -il verbo transumanar. Dante non l’ha creato solo per l’italiano giacché l’abbiamo adottato e fatto nostro anche noi in Inghilterra. L’ha creato per ogni lingua”. Egli è “il più europeo” e il più universale di tutti i poeti, perché “l’italiano di Dante diventa in qualche modo la lingua di ognuno, appena si comincia a cercare di leggerlo; le lezioni di tecnica, linguaggio ed esplorazione della sensibilità sono lezioni che ogni europeo farà proprie nel cercare di applicarle alla sua stessa lingua” Dante infatti, prima che a parlare, insegna agli altri a sentire: “La Divina Commedia esprime nell’ambito dell’emozione tutto ciò che, compreso tra la disperazione della depravazione e la visione della beatitudine, l’uomo è capace di essa puramente e semplicemente l’uomo non saprebbe mettere a fuoco queste dimensioni emotive. 

E’ Dante il supremo dilatatore dei confini della ideazione e della resa poetica, operazione rispetto alle quale neppure importa che sia stata compiuta in italiano: è un’operazione universale, che va oltre la stessa lingua usata…anche se Eliot non può trattenersi dall’affermare che è stata la “volgare eloquenza” o lingua prescelta per la Divina Commedia, a condurre l’italiano a un punto di splendore tale da fornire esso stesso, per l’uso che ne viene fatto, la più concreta prova dell’altezza della lezione di Dante al mondo. 

Nessuno oggi parla più la sua lingua –conclude -ma non importa che non abbia eredi; va anzi data per scontata l’assenza di epigoni che tentino di incamminarsi sui suoi passi verso le insuperabili altezze da lui raggiunte; conta l’universale operazione di aver indicato ai posteri le potenzialità d’espansione del pensiero e del “sentire” poetico, propri nella Divina Commedia, ma riferibili, in differenti favelle, alla cultura di tutti gli altri popoli. 

di Giovanni D'Alessandro Giurato 12° Concorso.


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