Al tramonto, quando si accendevano i lumi
delle strade e delle piazze
fra i muri dei vicoli arroccati
scivolava un’ombra solitaria:
leggeri i suoi passi nell’antico
silenzio di pietra.
A volte canticchiava strane filastrocche
con voce sottile di bambina
altre volte serrava le labbra
in una sorta di coro muto
e i suoi occhi troppo lucidi
si perdevano lontano
oltre l’immaginaria linea
dell’orizzonte.
è pazza – la gente mormorava –
e sorpassandola affrettava il passo
ed io non capivo quegli occhi sfuggenti
quel parlottare sommesso
per tracciare un preciso confine.
A me bambina dalle ginocchia sbucciate
sembrava qualcosa
fra una strega e un folletto
che conosceva a memoria
il linguaggio di qualsiasi oggetto.
Nascosta dietro lo spigolo
di un angolo restavo a guardarla affascinata
con quei vecchi maglioni sformati
seduta per ore sui gradini consumati
di un antico postribolo.
è pazza – la gente mormorava –
ma io guardavo quei fiori di campo
quelle spighe rinsecchite
che teneva poggiati sul grembo.
Mi diceva: “Puzzano i gigli”.
E accarezzava
con infinita dolcezza
i suoi fiori di campo e le spighe
come fossero stati i suoi figli.
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